Ettore Bartolozzi
Lunedì 14 febbraio alle ore 10 ant. è deceduto per paralisi bronchiale, nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, Giovanni Passannante.
I giornali quotidiani, dal Corriere della Sera all’Avanti!, dall’Avvenire d’Italia alla Vita, fanno seguire la notizia della morte da commenti per quello che fu l’avvenimento per il quale Giovanni Passannante fu condannato a morte.
Fu il 17 novembre 1878 che Umberto di Savoia, reduce da un lungo viaggio attraverso l’Italia, era accolto dal popolo pecorilmente devoto in Napoli. La carrozza nella quale, oltre a Umberto, si trovavano la regina Margherita, il principino ed il transfuga Benedetto Cairoli, ministro dell’interno, percorreva quel tratto di strada che, per il largo Carriera Grande, conduce dalla stazione ferroviaria al Palazzo Reale, quando Giovanni Passannante, di Salvia in Basilicata, si lanciò verso la carrozza e tentò di colpire re Umberto con un pugnale che aveva nascosto fra le pieghe di una bandierina. La prontezza di Benedetto Cairoli salvò Umberto I da quel primo attentato.
Il Passannante aveva allora 29 anni e faceva di professione il cuoco. Fu condannato a morte ma, graziato dal Re, fu rinchiuso nell’ergastolo dell’Isola d’Elba, presso Portoferraio, ove rimase circa 10 anni, nella Torre, che da lui prese il nome.
La segregazione cellulare continua, le infamie che contro di lui si compirono, gli fecero smarrire la ragione ed allora fu tradotto nel manicomio criminale di Montelupo, ove è morto cieco e completamente pazzo.
L’attentato di Passannante fu sfruttato dai reazionari di quell’epoca contro la fiorente Internazionale. Nell’atto di un singolo si volle vedere il complotto; e per dare consistenza agli armeggi della polizia, fu fatto passare il Passannante per anarchico, mentre non era che un repubblicano, e furono fatte scoppiare dalla polizia delle bombe addomesticate, ove più fiorenti erano le Sezioni dell’Internazionale, per poter avere il pretesto di fare degli arresti in massa, in onore e per la gloria della gloriosa stirpe sabauda.
A Firenze la sera del 18 novembre, mentre una dimostrazione acclamante ai sovrani passava per via Nazionale, scoppiò una bomba all’Orsini che uccise e ferì diverse persone. Su testimonianza di creature della questura fu imbastito un processo che, malgrado fosse indiziario, e malgrado apparisse agli occhi d’ognuno parto della polizia, portò alla condanna di diversi Internazionalisti, fra i quali il Batacchi e lo Scarlatti a pene gravissime, che raggiunsero l’effetto sperato, cioè quello di sbandare l’Internazionale fiorentina.
La figura di Giovanni Passannante, malgrado il giudizio del socialista Adolfo Zerboglio, riluce di luce propria e smentisce tutti coloro che, desiderosi di render servigi a coloro che ci comandano, vollero rimpicciolirla con il dichiarare essere il regicida un deficiente, squilibrato ed abbrutito.
La migliore risposta che possiamo dare a questi sicari vecchi ruffianeggianti tutti con i poteri costituiti, è riportare integralmente quanto ebbero a dichiarare gli psichiatri Biffi e Tamburini, incaricati della perizia al processo:
«Noi abbiamo esaminato attentamente le qualità psichiche del prevenuto e noi non vi abbiamo trovato nulla di anormale. L’attività produttiva della mente è in lui regolare; le espressioni di cui si serve non sono come comporterebbe la sua condizione sociale; le sue idee sono elevate e rivelano una cultura superiore. Le sue risposte denotano in lui una finezza ed una forza di pensiero non comune. Interrogato s’egli si credeva in diritto di fare violenza ai sentimenti della maggioranza, e di turbarne la tranquillità, ha risposto: La maggioranza che si rassegna è colpevole e la minoranza ha il diritto di resisterle.
Alla nostra domanda come mai lui, povero cuoco, aveva la presunzione di volere scrivere degli opuscoli, rispose: Sovente gli ignoranti riescono là ove i sapienti inciampano.
I sentimenti affettivi, quello del dovere soprattutto, sono in Giovanni Passannante pronunciatissimi.
Lo studio della sua vita anteriore non ci ha rivelato neppure un atto di disonestà. Infine egli ha volontà ferma, parola sicura, tagliente, che riflette fedelmente il suo pensiero. Ha una fisionomia dolce, sorridente qualche volta, ed ha un comportamento energico.
Interrogato se egli approvava che per la sua difesa lo si facesse passare per pazzo, rispose: Io non temo punto la morte; non voglio passare per pazzo; sacrifico volentieri la mia vita ai miei principi».
Dalla perizia psichiatrica dei sig. Biffi e Tamburini apprendiamo che Giovanni Passannante non era un deficiente come vorrebbero far credere oggi i sicari della penna, ma possedeva un’intelligenza superiore alla media, che gli aveva permesso, a lui umile cuoco, di acquistare una cultura non comune fra la gente del popolo.
Ebbene malgrado la sua bontà d’animo affermata dagli psichiatri, malgrado la sua illibatezza di costumi, malgrado la nobiltà dei sentimenti che lo avevano spinto a compiere l’attentato, non contro Umberto I, ma contro il tiranno, fu condannato a morte, e per crudeltà maggiore, salvato dal patibolo per farlo morire cento volte al giorno, nelle tetre segrete della Torre.
C’è da inorridire al pensiero di come quest’uomo geniale, intelligente, di sana e forte costituzione fisica, abbia potuto perdere la ragione e la salute. C’è da inorridire pensando a quei dieci anni passati nel buio e nel silenzio di una tomba. Il cadavere di Giovanni Passannante si innalza oggi fremente di fronte ad una dama eternamente bionda che non conobbe altro che le raffinatezze crudeli della più abietta vendetta.
Nessuno ha mai potuto illustrare le sofferenze di Giovanni Passannante. Quando le porti pesanti della sua tetra e fetida prigione si aprirono per lasciarlo passare onde trasportarlo al manicomio di Montelupo, da quella tomba non uscì che il corpo disfatto della povera vittima, la quale lasciava là dentro la parte sua migliore, il suo cervello pensante, la sua forza d’animo, la fede nell’Idea di fratellanza umana.
Poche rivelazioni si ebbero sulla vita che il Passannante passò in carcere. L’unica persona che lo vide, l’on. Bertani, ne fa un quadro raccapricciante. Saverio Merlino ne parla nel suo libro L’Italie telle qu’elle est in questo modo: «Per due anni e mezzo Passannante restò sepolto in una completa oscurità, in una cella situata al di sotto del livello dell’acqua, e là sotto l’azione combinata dell’umidità e delle tenebre il suo corpo spogliò di ogni pelo, si scolorì e si gonfiò in una guisa pietosa.
Più tardi lo si fece montare per scale segrete e oscure, senza ch’egli vedesse un lembo di cielo, a una cella superiore. Là egli restò rinchiuso giorno e notte senza interruzione.
Il guardiano che lo guardava a vista, aveva l’ordine espresso di non mai rispondere alle sue domande, fossero anche le più urgenti e le più indispensabili.
È inutile dire ch’egli non riceveva mai né lettere, né visite.
Bertani fu il solo che riuscì a forzare la consegna. Dopo otto giorni d’insistenza, di minacce e di dispacci col ministero, ottenne un permesso, che era stato sempre rifiutato a degli stranieri eminenti, ed anche all’arcivescovo di Portoferraio. Ma egli doveva guardare il prigioniero da un buco della porta e alla condizione assoluta di non parlare, perché il prigioniero non doveva accorgersi della presenza d’un visitatore.
Dopo un certo tempo, necessario ad abituare l’occhio alle tenebre, Bertani poté discernere alla debolissima luce di una lanterna situata nell’interno della cella la figura di Passannante ridotto in una condizione raccapricciante. Le sue membra erano gonfie, il suo viso cereo, egli giaceva su un tavolaccio ed emetteva dei rantoli tenendo sollevata con una mano una grossa catena di 18 chili ch’egli non poteva sopportare in altro modo data l’estrema sua debolezza.
Il disgraziato mandava delle grida strazianti, che i marinai dell’isola sentivano sempre con grande emozione; come i detenuti della prigione S. Francesco di Napoli avevano sentito le sue grida d’angoscia, quando lo si torturava, prima, durante e dopo il processo, per fargli confessare il nome dei presunti complici, ch’egli non aveva avuto.
Simile orrendo trattamento spezzò la sua fibra robusta; egli impazzì, si ridusse a tal punto da mangiare i propri escrementi!
Solo allora il governatore dell’isola si commosse e temendo peggio (come se potesse darsi una cosa peggiore di quella rovina!) si decise a trasferire la povera vittima al manicomio provinciale di Montelupo».
E malgrado tutto questo si ha l’audacia di dire che Giovanni Passannante ebbe salva la vita per la bontà del sovrano.
Un delitto continuato 33 anni si è potuto compiere indisturbato nell’Italia libera ed indipendente, consenzienti le antiche vittime della tirannia austriaca, alleate agli sbirri, ai magistrati, ai carcerieri, uniti tutti per rendere quanto più dolorosa era possibile la vita a chi aveva sentita l’audacia allettante della libertà senza limite.
Giovanni Passannante è morto. Ma dove egli passò tanti anni della sua vita, un’altra intelligenza va spegnendosi lentamente.
Pietro Acciarito, la vittima dei Doria e dei Canevelli, deve essere strappata alla vendetta della vedova inconsolabile. I Rivoluzionari, gli Audaci, i Ribelli debbono in ogni modo agitarsi ed agitare, per la libertà di lui e di tutte le altre vittime che malgrado le amnistie burletta di questi ultimi tempi, rimangono a languire nelle segrete italiane.
Possano i racconti delle infamie compiute contro Giovanni Passannante, Pietro Acciarito e Gaetano Bresci; le uccisioni dei Frezzi, dei d’Anrelo e dei cento altri risvegliare nell’animo delle plebi italiane il fuoco sacro della Vendetta e dell’Odio.
[La Rivolta, Pistoia, anno I, n. 8 del 19 febbraio 1910