Se la Val Susa chiama…

… bisogna rispondere, non c’è dubbio. Perché da tempo non si sviluppava uno scontro così generalizzato fra un’intera popolazione e lo Stato. Uno scontro che dura da anni e che nessuno è finora riuscito a dirimere, data l’impossibilità di trovare una soluzione condivisa. Non che siano mancati aspiranti mediatori e conciliatori, brava gente interessata a imbastire un accordo fra istituzioni nazionali e abitanti locali.

Solo che, in un certo senso, tutti sono andati a cozzare contro l’incredibile arroganza di questo governo che ha pensato di poter pacificare quella vallata prima coi manganelli e poi con i gas lacrimogeni. Anziché rivedere parzialmente i propri progetti, giocare sulla partecipazione ed offrire carote a tutti — cosa che per un breve periodo di tempo è stato possibile — i governanti hanno preferito brandire il bastone per imporre il proprio arbitrio a quegli zotici montanari. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: lo scorso 3 luglio decine di migliaia di persone hanno dato e sostenuto la battaglia contro le forze dell’ordine.

Ma, se la Val Susa chiama, non è detto che l’unica risposta da dare sia quella di prendere un treno per Chiomonte dopo essersi dotati di scarponi e zainetto. Con buona pace di piccoli e grandi leader di movimento che amano contare chi reputano presente ai loro appelli, non tutti hanno la possibilità, o anche solo la voglia, di unirsi al variegato popolo NoTav in lotta per il Bene Comune (come ossessivamente ripetuto da una vulgata cittadinista tanto più dilagante quanto incontrastata).

Per tutti coloro che sono troppo impossibilitati o troppo disgustati per saltare sopra un treno — e che sono assai più di quel che si potrebbe supporre —, come anche per tutti quelli che pensano che quella lotta debba uscire dai ristretti confini geografici di una vallata piemontese, se vuole davvero deflagrare in tutto il paese, esistono altre possibilità. E non ci riferiamo ovviamente a quella data per scontata di presidiare a destra e a sinistra i luoghi istituzionali, bensì alla possibilità di alimentare l’incendio principale accendendo altrove nuovi focolai. Battere le pur solitarie periferie, non puntare sull’affollato centro. Si tratta di una possibilità indecifrabile, marginale, priva del «calore della comunanza», eppure decisiva. Quella lotta, per trovare ossigeno, deve uscire dal bucolico contesto a cui in troppi vorrebbero inchiodarla.

Se un’amnesia interessata non giocasse ormai brutti scherzi si sarebbe gridato da un pezzo che il Tav è dappertutto, e che non occorre né attendere scadenze istituzionali né raggiungere territori delimitati per poter prendere parte a questa lotta.

Lo hanno dimostrato sia i fuochi divampati nel modenese e a Firenze nei cantieri Tav, sia i blocchi ferroviari effettuati a Napoli, sia le vetrate del PD infrante nel teramano, sia le contestazioni a Bersani avvenute a L’Aquila. Esempi la cui diversità è indice di una ricchezza che andrebbe perduta qualora ci si ostinasse a pretendere di accentrare tutto in un sol luogo.

 

«Ma chi l’ha detto che ai disoccupati non si può parlare – praticandoli – di sabotaggio, di abolizione del diritto, o del rifiuto di pagare l’affitto? Chi l’ha detto che, durante uno sciopero di piazza, l’economia non può essere criticata altrove? Dire ciò che il nemico non si aspetta ed essere dove non ci attende. Questa è la nuova poesia».

[12/7/11]

 http://www.finimondo.org/node/334

 

 

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