(it/en/fr/de/es) – Lettera alla galassia anarchica



Senza essere stati invitati, irrompiamo con questa lettera in un dibattito che non è il nostro. E che non sarà mai il nostro, perché si svolge su un terreno che ci appare sterile per la ricerca di prospettive insurrezionali e per le idee e le attività anarchiche conseguenti. Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché scrivere una simile lettera? Perché non c’è nulla che ci scaldi il cuore quanto la rivolta liberatrice e distruttrice, quanto la lotta per la sovversione dell’esistente; perché continueremo sempre a riconoscerci in tutti quei compagni che, spinti da un desiderio di libertà, vanno all’assalto delle strutture e degli uomini del dominio; perché diamo un valore infinito alla forza di volontà individuale, alla ricerca di coerenza e al coraggio che malgrado tutto cerca di dare fuoco alla polveriera. Non considerate queste premesse come un vano tentativo di compiacere; sono sincere, come lo è la nostra preoccupazione davanti all’intenzionale mutilazione del campo di battaglia anarchico.

Senza peli sulla lingua: c’è bisogno più che mai dell’intervento distruttivo degli anarchici, ed è più che mai il momento di intensificare le nostre lotte, di andare alla ricerca di possibilità e di ipotesi per estendere la rivolta, rendere possibile l’insurrezione ed accelerare così la possibilità di sconvolgere questo mondo. Ma questo bisogno e questa pulsione non ci esentano dall’obbligo di riflettere sul cosa, dove, quando, come e perché.

 

Veniamo al dunque: quali ragioni spingono gli anarchici (sapendo che non è difficile capire le ragioni degli autoritari) a rivendicare sistematicamente le loro azioni e a firmarle con sigle diventate nel frattempo mondiali? Cosa li porta a credere che la difficile questione delle prospettive possa essere risolta mettendo una rivendicazione su internet o inviandola ai media? Che cosa spinge a ritenere che percorrere oggi questa strada sia associato a una profonda forma di coerenza fra pensiero e azione, fra idee e pratiche, allorché si tratta piuttosto di una liquidazione illusoria della tensione permanente fra la teoria e la pratica, quella che dovrebbe esserci e che è la forza propulsiva che sta dietro alla lotta anarchica?

 

Questa mania, che pare crescere a valanga, rischia di eclissare rapidamente gli altri atti di rivolta. Non solo gli atti degli anarchici che fanno a meno con gioia della pillola amara e sempre deludente della rivendicazione, ma anche e forse soprattutto più in generale tutto il panorama di ribellione e di conflittualità sociale. Ecco una delle “ragioni” che ci spingono a scrivere questo testo. Ne abbiamo abbastanza di subire e dover constatare che il campo di battaglia anarchico, quello dell’attacco, del sabotaggio e dell’espropriazione sono sempre più assimilati ad una sigla e, in quanto tale, ad una rappresentazione politica; ne abbiamo abbastanza di vedere come gli orizzonti si riducano erroneamente a due scelte in apparenza contraddittorie: si opti per l’anarchismo “gentile” e si rincorrano le assemblee, i movimenti popolari e i sindacati autonomi; o si scelga l’anarchismo “cattivo”, venendo gentilmente pregati di timbrare con una sigla i propri contributi alla guerra sociale – in caso contrario, altri lo faranno al nostro posto.

 

Perché anche noi passiamo all’attacco. Anche noi usciamo a sabotare l’apparato del capitale e dell’autorità. Anche noi scegliamo quotidianamente di non accettare una posizione da mendicanti e di non rimandare l’espropriazione necessaria. Soltanto, pensiamo che le nostre attività facciano semplicemente parte di una conflittualità sociale più ampia, di una conflittualità che non ha bisogno né di rivendicazioni né di sigle. Soltanto, pensiamo che solo quando un atto è anonimo possa appartenere a chiunque. Soltanto, pensiamo che timbrare le azioni di attacco le catapulti dal campo sociale al campo politico, al campo della rappresentazione, della delega, della separazione fra attori e spettatori. E, come è stato spesso ribadito in questo genere di dibattiti, non basta proclamare il rifiuto della politica perché questo sia effettivo. Il rifiuto della politica si situa tra l’altro nella coerenza fra mezzi e fini, e non esiste strumento più politico della rivendicazione, così come lo sono la tessera d’iscrizione, il programma e la dichiarazione dei principi di base.

 

Inoltre, vediamo l’imperversare di una confusione che vogliamo, ancora una volta, sottolineare e combattere, perché ci è indigesto continuare ad accettare il significato che attualmente viene attribuito ad alcuni concetti, come ad esempio l’informalità. La scelta per un movimento anarchico informale e autonomo significa il rifiuto di strutture fisse, di organizzazioni formali, di federazioni accentratrici e unificatrici; quindi anche di firme ricorrenti, come di qualsiasi altra firma. È il rifiuto di erigere programmi, è la messa al bando di tutti i mezzi politici; e quindi anche delle rivendicazioni programmatiche, poco importa se si autodefiniscono, digitalmente, formali o magari “informali”. In senso positivo, l’informalità è per noi un arcipelago senza confini e non circoscritto di gruppi autonomi e di individui autonomi che stabiliscono fra loro legami basati sull’affinità e la conoscenza reciproca e che, su queste basi, decidono di realizzare dei progetti comuni. È una scelta a favore delle piccole cerchie di affinità che fanno della loro autonomia, delle loro prospettive e dei loro metodi d’azione il fondamento per costruire legami con gli altri. L’organizzazione informale non ha nulla a che vedere con federazioni, acronimi o sigle. E cosa spinge alcuni compagni a parlare non solo di informalità, ma anche di «insurrezionalismo»? A rischio di appannare l’ampio panorama di idee, di analisi, di ipotesi e di proposizioni, potremmo definire «l’insurrezionalismo» come l’insieme di metodi e di prospettive che, partendo da un anarchismo senza compromessi, cercano di contribuire alle «situazioni insurrezionali». L’arsenale di metodi di cui dispongono gli anarchici è enorme. È importante comprendere che l’utilizzo di certi metodi (agitazione, attacco, proposte organizzatrici ecc.) in sé significa molto poco: è solo in una progettualità ponderata ed in evoluzione che essi acquiscono il loro senso nella lotta. Bruciare una struttura dello Stato va sempre bene, ma in sé non significa che si inscriva in una prospettiva insurrezionale. E questo vale ancor più se si indirizza l’attacco contro obiettivi centrali e mediatici con successiva e conseguente confessione di fede. Non è un caso se, nei diversi momenti di progettualità insurrezionali, l’enfasi è stata apposta soprattutto su attacchi modesti, riproducibili e anonimi contro le strutture e gli uomini più periferici del dominio, o sulla necessità di sabotaggi mirati di infrastrutture, sabotaggi che non hanno bisogno di alcuna eco mediatica per ottenere il proprio scopo, come ad esempio la paralisi dei flussi di trasporto, di dati e di energia del potere.

 

Ci sembra che dietro all’attuale mania di rivendicare non si nascondano troppe prospettive – o, perlomeno, facciamo fatica a scorgerle. In effetti, e con ciò non intendiamo in alcun modo togliere alcunché alla ribellione sincera e coraggiosa di questi compagni, sembra che ad essere ricercato sia soprattutto il riconoscimento. Un riconoscimento da parte del nemico, che completerà rapidamente i propri elenchi di organizzazioni “terroristiche”, è spesso l’inizio della fine: il nemico comincia a darsi da fare per isolare una parte della conflittualità più estesa. Un isolamento che non è solo un presagio di repressione (di fatto, questo sarebbe il meno, essendo la repressione sempre presente – lungi da noi l’idea di lamentarci se il potere persegue le attività degli anarchici) ma soprattutto, ed è l’aspetto più importante, è il modo migliore per contrastare un’eventuale contaminazione. Nello stato attuale del corpo sociale, che è malato e marcescente, il potere non potrebbe augurarsi niente di meglio di un’arma ben riconoscibile e delimitata che tenta di tagliuzzare un po’ qui e un po’ là, ma non c’è nulla che lo impaurisca più di un virus che rischia di contaminare in maniera inafferrabile e quindi incontrollabile tutto il corpo. Oppure ci sbagliamo e magari si tratta di un riconoscimento da parte degli sfruttati e degli esclusi? Ma non siamo proprio noi, gli anarchici, nemici di ogni forma di delega, di esempi illuminati che spesso non fanno che legittimare la propria rassegnazione? Certo, le nostre pratiche possono essere contagiose, le nostre idee d’altronde anche di più, ma unicamente quando rimettono la responsabilità di agire ad ogni singolo e distinto individuo; quando smascherano la rassegnazione in quanto scelta individuale. Potranno infiammare i cuori, sicuro!, ma qualora non dispongano dell’ossigeno di una propria convinzione si spegneranno rapidamente e, nel “migliore” dei casi, saranno seguite da qualche applauso per i martiri in divenire. E proprio adesso che la mediazione politica (partiti, sindacati, riformismo) si sta a poco a poco esaurendo e diventa superata; adesso che la rabbia può allungare liberamente le mani verso tutto ciò che distrugge la vita, sarebbe veramente il colmo se i non-sottomessi della politica per eccellenza, gli anarchici, riprendessero la fiaccola della rappresentazione e, seguendo l’esempio dei predecessori autoritari, separassero la conflittualità sociale dalla sovversione immediata di tutti i ruoli sociali. E poco importa se intendano far ciò ponendosi alla testa dei movimenti sociali, trascinandoli con la retorica delle assemblee popolari o in qualità di gruppo armato specifico.

 

O si tratta di un’aspirazione alla «coerenza»? Sfortunatamente, ci sono sempre stati anarchici che scambiano la ricerca della coerenza con accordi tattici, alleanze nauseanti e separazioni strategiche fra i mezzi e i fini. Sicuramente una coerenza anarchica si trova tra l’altro nella negazione di tutto ciò. Ma con ciò, non è detto che ad esempio una condizione di “clandestinità” sarebbe più coerente. Quando la clandestinità non viene più vissuta come una necessità, a causa della caccia repressiva o perché altrimenti sarebbe impossibile realizzare certe azioni, ma piuttosto come una sorta di apice dell’attività rivoluzionaria, rimane ben poco in piedi del famoso a-legalismo. Invece di ricercare la coerenza al di là delle leggi e dei comandamenti e quindi di accettare lo scontro, il legalismo viene semplicemente rovesciato in un «illegalismo» per cui, proprio come nel legalismo, il carattere sovversivo delle attività viene quantificato e misurato dall’eventuale pena detentiva corrispondente. Il rifiuto del legalismo non è la stessa cosa della scelta assoluta per l’illegalismo. Basterebbe fare un facile paragone con la situazione sociale in Europa per farsene un’idea: non è perché migliaia di persone si ritrovano di fatto in una situazione di “clandestinità” (i senza documenti) che diventano automaticamente e oggettivamente una minaccia per il legalismo e possano così essere considerati «soggetti rivoluzionari». Perché dovrebbe essere diverso per degli anarchici che si ritrovano in una condizione di clandestinità?

 

O forse si tratta di fare paura al nemico? Come si vede abbastanza spesso nelle rivendicazioni, a quanto pare esistono anarchici che credono di poter fare paura al potere proferendo minacce, pubblicando foto di armi o facendo esplodere qualche bomba (e non parliamo neppure della pratica abietta di spedire pacchi-bomba alla rinfusa). Dinanzi ai massacri quotidiani organizzati dal potere, ciò denota una particolare ingenuità, soprattutto per dei nemici del potere che non si fanno illusioni su potenti più comprensivi, un capitalismo dal volto umano, rapporti più giusti all’interno del sistema. Se, malgrado tutta la sua arroganza, il potere teme qualcosa, si tratta senza dubbio della diffusione della rivolta, della propagazione dell’insubordinazione, dei cuori che s’infiammano fuori da ogni controllo. Ed è chiaro che gli strali della repressione non risparmieranno affatto gli anarchici che vogliono contribuirvi, ma questo non prova in alcun modo quanto “pericolosi” siamo. La sola cosa che potrebbe voler dire è quanto sarebbe pericoloso se le nostre idee e pratiche si diffondessero fra gli esclusi e gli sfruttati.

 

Continua quindi a stupirci che l’idea di una sorta d’ombra non seduca più gli anarchici d’oggi, almeno quelli che non intendono rassegnarsi, né restare in attesa o costruire organizzazioni di massa all’infinito, ecc. Un tempo se ne andava fieri: fare tutto il possibile per estendere la palude della conflittualità sociale e renderla così impenetrabile alle forze della repressione e del recupero. Non si era alla ricerca dei neon della pubblicità, né della gloria dei guerrieri; nell’ombra, nella parte oscura della società, si dava il proprio contributo alla perturbazione della normalità, alla distruzione anonima delle strutture del controllo e della repressione, alla «liberazione» attraverso il sabotaggio dello spazio e del tempo affinché le rivolte sociali potessero seguire il loro corso. E queste idee venivano diffuse con fierezza, in modo autonomo, senza ricorrere agli echi mediatici, lontani dallo spettacolo politico, anche d’«opposizione». Un’agitazione che non chiedeva di essere filmata, di essere riconosciuta, ma che voleva incoraggiare dappertutto la ribellione e intrecciare legami, in questa rivolta condivisa, con altri ribelli.

 

Oggi parecchi compagni sembrano preferire la facile soluzione di una identità alla diffusione delle idee e della rivolta, riducendo così per esempio i rapporti dì affinità all’adesione a qualcosa. Evidentemente è più facile prendere e consumare opinioni pronte all’uso nei corridoi del supermercato militante, piuttosto che elaborare un proprio percorso di lotta che rompa con tutto ciò. Evidentemente è più facile concedersi un’illusione di forza attraverso una sigla condivisa, piuttosto che comprendere che la «forza» della sovversione si nasconde nella misura e nei modi in cui riesce a contaminare il corpo sociale con idee e pratiche liberatrici. L’identità e «la formazione di un fronte» offrono magari la carezzevole illusione di significare qualcosa, soprattutto nello spettacolo delle tecnologie di comunicazione, ma non distruggono il minimo ostacolo. Peggio ancora, ciò evidenzia tutti i sintomi di una visione poco anarchica della lotta e della rivoluzione, una visione che di fronte al mastodonte del potere crede di poter mettere in campo, simmetricamente, un illusorio mastodonte anarchico. La conseguenza inevitabile è l’orizzonte che si restringe finendo in una poco interessante contemplazione di se stessi, qualche pacca sulle spalle qui e là e la costruzione di un ambito autoreferenziale esclusivo.

 

Nessuno stupore se questa mania paralizzerà ancor più il movimento anarchico autonomo al momento di dare il nostro contributo alle rivolte sempre più frequenti, spontanee e distruttive. Rinchiusi nell’autopromozione e nell’autoreferenzialità, con una comunicazione ridotta alla pubblicazione di rivendicazioni su internet, non ci pare che gli anarchici potranno fare granché allorché i tumulti scoppieranno vicini (a parte qualche abituale esplosione ed incendio, spesso contro obiettivi che i ribelli stessi stavano già distruggendo). Più sembriamo avvicinarci alla possibilità di un’insurrezione, più palpabili diventano queste possibilità, e più gli anarchici sembrano apparentemente non voler più interessarsi all’insurrezione. E questo vale anche, sia per quelli che si perdono nella ripresa del ruolo di una sinistra morente, sia per quelli che si stanno rinchiudendo in una qualche ideologia di lotta armata. Ma chiariamo un momento cosa intendiamo quando parliamo di prospettive insurrezionali e di insurrezione. Non si tratta certo di una semplice moltiplicazione del numero di attacchi, e ancor meno quando questi sembrano (voler) diventare il terreno esclusivo degli anarchici coi loro fronti. Molto più che una singolar tenzone con lo Stato, l’insurrezione è la rottura molteplice con il tempo, con lo spazio e con i ruoli del dominio, una rottura per forza di cose violenta, che potrebbe divenire l’inizio di una sovversione dei rapporti sociali. In questo senso, l’insurrezione è piuttosto uno scatenamento sociale che supera il semplice fatto della generalizzazione della rivolta o delle sommosse, e che porta già nella sua negazione l’inizio di un nuovo mondo, o perlomeno dovrebbe portarlo in sé. È soprattutto la presenza di una tale tensione utopica ad offrire qualche punto di appoggio contro il ritorno alla normalità e la restaurazione dei ruoli sociali dopo la grande festa della distruzione. Che sia dunque chiaro che l’insurrezione non è un affare unicamente degli anarchici, anche se il nostro contributo, la nostra preparazione, le nostre prospettive insurrezionali sono senza il minimo dubbio importanti e potranno diventare, nell’avvenire, decisive per spingere lo scatenamento della negazione in una direzione liberatrice. In un mondo che diventa ogni giorno più instabile, queste difficili questioni dovrebbero ritornare in primo piano, rinunciarvi a priori per rinchiudersi in un qualche ghetto identitario coltivando l’illusione di sviluppare «forza» attraverso sigle collettive e «l’unificazione» degli anarchici pronti ad attaccare, diventa irrimediabilmente la negazione di ogni prospettiva insurrezionale.

 

Tornando al mondo dei fronti e delle sigle, si potrebbero per esempio intendere i riferimenti d’obbligo ai compagni incarcerati come segnale precursore della prossima reclusione in un quadro autoreferenziale. Sembra che, una volta diventati compagni detenuti dallo Stato, non siano più compagni come tutti noi, ma soprattutto compagni «incarcerati». Le posizioni in questo dibattito già difficile e penoso sono talmente consolidate da far rimanere solo due opzioni: o l’esaltazione assoluta dei nostri compagni prigionieri, o il disgusto assoluto che si incaglia facilmente in una rinuncia a continuare a dare corpo ed anima alla solidarietà. Ha ancora senso ripetere che i nostri compagni che sono in galera non stanno al di sopra o al di sotto degli altri compagni, ma semplicemente in mezzo? Non è spaventoso vedere come, malgrado le numerose lotte contro la prigione, l’attuale svolta riprenda di nuovo il discorso sui «prigionieri politici», disertando una prospettiva più ampia di lotta contro il carcere, la giustizia, ecc.? In fin dei conti, rischiamo di portare a termine ciò che lo Stato ha voluto ottenere rinchiudendo i nostri compagni: facendone dei punti di riferimento centrali, astratti e da esaltare, li si isola dall’insieme della guerra sociale. Invece di cercare maniere per alimentare al di là dei muri legami di solidarietà, di affinità e di complicità, ponendo il tutto all’interno della guerra sociale in modo radicale, la solidarietà si limita a citare dei nomi alla fine di una rivendicazione. Ciò genera inoltre un circolo abbastanza vizioso senza troppe prospettive, una competizione di attacchi «dedicati» ad altri, invece di trovare la forza in se stessi e nella scelta del quando, come e perché intervenire in determinate condizioni.

 

Ma la logica del lottarmatismo è implacabile. Una volta messa in atto, sembra che poco resti ancora da fare. Tutti coloro che non vi aderiscono o non ne prendono le difese sono assimilati a compagni che non vogliono agire né attaccare, che sottopongono la rivolta ai calcoli e alle masse, che vogliono solo aspettare e respingono l’impulso di dare qui ed ora fuoco alle polveri. Nello specchio deformante, il rifiuto dell’ideologia della lotta armata diventa il rifiuto della lotta con le armi in quanto tale. Ovviamente, non c’è nulla di meno vero, ma non ci sono più orecchie che vogliano ascoltare, lo spazio di discussione è chiuso. Tutto si riduce a pensare per blocchi, pro o contro, e la via secondo noi più interessante, quella dello sviluppo delle progettualità insurrezionali, viene definitivamente accantonata. Con grande gioia dei libertari formali e degli pseudo-radicali così come delle forze repressive, il cui desiderio è nient’altro che il prosciugamento di questa palude.

 

Perché, chi vuole oggi discutere ancora di progettualità, quando il solo ritmo che viene dato alla lotta è diventato la somma degli attacchi rivendicati su internet? Chi è ancora alla ricerca di una prospettiva che voglia andare oltre la semplice restituzione di qualche colpo? E, a scanso di equivoci, ripetiamo che senza dubbio colpire è necessario, qui ed ora, e con tutti i mezzi che riteniamo adeguati e opportuni. Ma la sfida di sviluppare una progettualità che miri a tentare di scatenare, estendere e approfondire delle situazioni insurrezionali, esige molto di più della sola capacità di sferrare dei colpi. Esige lo sviluppo di idee proprie e non la ripetizione di quanto detto da altri; la forza di sviluppare una reale autonomia in termini di percorsi di lotta e di capacità; la ricerca lenta e difficile di affinità e di approfondimenti della conoscenza reciproca; una certa analisi delle condizioni sociali in cui agiamo; il coraggio di formulare ipotesi per la guerra sociale in modo da non correre più dietro ai fatti, o dietro a noi stessi. In breve, non richiede solo la capacità di saper utilizzare certi metodi, ma soprattutto le idee su come, dove, quando e perché utilizzarli, ed anche qui in un intreccio necessario con tutta una gamma di altri metodi. Altrimenti, non resteranno più anarchici, ma solo una serie di ruoli tristi e circoscritti: propagandisti, squatter, combattenti armati, espropriatori, scrittori, casseur, insorti e quant’altro. Nulla sarebbe più penoso del ritrovarsi, dinanzi alla possibilità dell’imminente tempesta sociale, del tutto disarmati qualora ciascuno disponesse di una sola specialità. Nulla sarebbe più fastidioso del dover constatare, in condizioni sociali esplosive, che gli anarchici si occupano troppo del loro orticello per essere in grado di contribuire realmente all’esplosione. Nulla avrebbe di più il gusto amaro delle occasioni mancate allorché, per l’esclusiva importanza data al ghetto identitario, si rinunciasse a scoprire i nostri complici nella tempesta sociale, a forgiare legami di idee e di pratiche condivisi con altri ribelli, a rompere con tutte le forme di comunicazione mediata e di rappresentazione al fine di aprire lo spazio per un’autentica reciprocità che si renda allergica ad ogni potere e dominio.

 

Ma, come sempre, rifiutiamo di disperare. Sappiamo che ancora molti compagni sono alla ricerca, nello spazio e nel tempo in cui ogni spettacolo politico è conseguentemente bandito, di possibilità per raggiungere il nemico e per costruire, attraverso la diffusione di idee anarchiche e di proposte di lotta, dei legami con altri ribelli. È probabilmente la strada più difficile, perché non ci sarà mai un riconoscimento per questo. Né da parte del nemico, né da parte delle masse e, con ogni probabilità, neanche da parte di altri compagni e rivoluzionari. Ma portiamo in noi una storia, una storia che ci unisce a tutti gli anarchici che hanno ardentemente continuato a rifiutare di lasciarsi includere, sia nel movimento anarchico “ufficiale” che nel suo riflesso lottarmatista. Che continuano a rifiutare di separare la diffusione delle nostre idee dal modo in cui sono diffuse, cercando così di bandire ogni mediazione politica, inclusa la rivendicazione. Che sono poco interessati a sapere chi ha fatto questo o quello, ma che lo riallacciano alla propria rivolta, alla propria progettualità che si svolge nella sola cospirazione che vogliamo: quella delle individualità ribelli per la sovversione dell’esistente.

 

[20/11/2011]

 

 

Letter to the anarchist galaxy

Uninvited, we are forcing ourselves into a debate which is not ours. And which will never be so, because it is put on a terrain remaining sterile for the development of insurrectional perspectives and the anarchist ideas and activities focussing on this development. You could wonder, so why writing a letter? Because nothing is closer to our hearts than the liberating and destructive revolt, than the struggle for the subversion of the existent, because we will never stop to recognize ourselves in all comrades who decide to attack the structures and people of domination out of a desire for freedom; because there are few things we cherish so strongly as the individual will, the striving for coherence and the courage of putting the fire to the fuse despite everything. Don’t think we are writing this premises in an attempt to please; they are sincere, as much as is our concern about the voluntary amputation of the anarchist struggle domain.

 

Let’s be clear: more than ever there is a need for the destructive intervention of anarchists, more than ever it is the moment to intensify, to search for possibilities and hypotheses enabling the expansion of revolt and insurrection and in this way fastening the turn-over of this world. But this need and urge don’t resign us from the obligation to think about what, where, how and why.

 

Let be straightforward: for what reasons do anarchists (we don’t have any difficulties to understand why authoritarians would do so) systematically claim their acts and sign them with acronyms that have become famous worldwide? What brings them to associate this road with an excessive form of coherence between thinking and acting, between ideas and practices, while in fact it is simply the illusory abolition of a permanent tension which should exist in between them and which is beyond doubt the moving strength behind the anarchist movement?

 

This extending mania is in risk of casting its shadow over all other acts of revolt. Not only those acts by anarchists that merrily let pass by the bitter and ever disappointing pill of the claim, but as well and maybe even especially the acting of the more general panorama of rebellion and social conflictuality. Maybe that is one of the ‘reasons’ which urged us to the writing of this text. Tired of experiencing and of finding the anarchist struggle field of attack, sabotage and expropriation more and more assimilated to an acronym and as such a political representation; tired of noticing the horizons falsely narrowing into two falsely opposed choices: or the ‘well-behaved’ anarchism, running behind the assemblies, social movements and base trade unions; or the ‘bad’ anarchism, being friendly asked to stamp your contributions to the social war with some acronym- and if you don’t, someone else will do it for you.

 

Because we as well choose to attack. We as well sabotage the machine of capital and authority. We as well choose to not accept a begging position and don’t postpone the necessary expropriation to tomorrow. But we do think that our activities simply make part of a bigger social conflictuality, a conflictuality which doesn’t need claims and acronyms. But we do think that only when acts are anonymous, they can truly be appropriated by everyone. But we do think that putting a stamp on an attack is bringing the attack from the social to the political field, to the field of representation, delegation, actors and spectators. And as already has often been said in this kind of debates, it’s not enough to proclaim the refusal of politics: its refusal implicates moreover the coherence between means and goals, and the claim is a political instrument, as are the membership cart, the program, the statement of principles.

 

On top of that, there is a confusion which we want to expose, because we can’t continue simply standing by and watching the content which is nowadays more and more given to concepts such as for example informality. The choice for an informal autonomous anarchist movement implicates the refusal of fixed structures, of membership organisations, of centralising and unifying federations; and thereby as well of fixed returning signatures, if not of all signatures. It is the refusal of the drawing up of programs, the banishment of all political means; and thereby as well of the programmatic claims which pretend to be in the position of outlining campaigns. It is the refusal of all centralisation; and so equally of all umbrella structures, no matter if they declare themselves digitally ‘informal’ or formal. In a positive way, to us informality signifies an unlimited and undefined archipelago of autonomous groups and individuals which are forging ties based on affinity and mutual knowledge, who decide upon that basis to realize common projects. It is the choice for small, affinitary circles which make outof their own autonomy, perspectives and action methods the basis for creating ties with others. Informal organization has nothing to do with neither federations nor acronyms. And what brought some comrades to speak not only about informality, but about ‘insurrectionalism’ as well? With the risk of devaluing the wide panorama of ideas, analyses, hypotheses and proposals, we could say that ‘insurrectionalism’ contains the methods and perspectives which, out of a non-compromising anarchism, want to contribute to ‘insurrectional situations’. The anarchist arsenal of methods for this contribution is enormous. Moreover, the use of methods (agitation, attack, organisational proposals etc.) on itself hardly means anything: only in a thought over and evolving ‘projectuality’ do they get meaning in the struggle. Putting fire to a state building is beyond doubt always a good thing, but it is therefore not necessarily inscribed in an insurrectional perspective ‘as such’. And this counts even less for the choice to for example aim the attacks especially against rather central, spectacular targets accompanied by confessions of faith. It is not a coincidence that during different moments of insurrectional projectualities, the emphasis was put especially on modest, reproducible, anonymous actions of attack against the more and more centralized structures and people of the domination, or on the necessity of well-aimed sabotage of infrastructures that don’t need echo’s in the media in order to reach their goals, for example the immobilization of the transport, data- and energy currents of the power.

 

It seems that there are not too many perspectives behind the current mania of claims, or at least, we have difficulties in discovering them. In fact, and this doesn’t imply we want to underestimate the sincere and courageous rebellion of those comrades, it seems as if there is especially a striving for recognition. A recognition by the enemy, who will hurry up to complete its list of terrorist organisations, often signifies the beginning of the end: the enemy starts working to isolate a part of the conflictuality from the larger conflictuality, isolation which is not only the forerunner of repression (and actually it doesn’t really matter, repression is always there- we’re not going to weep about the fact that anarchist activities are always being followed with Argus’ eyes, and so prosecuted), but especially, and that’s the most important, it is the best means to combat all possible infection. In the current situation of the social body, which is ill and deteriorating, the best for power is a clearly recognizable and definable knife which tries to cut a bit, while the worst for power is a virus which risks harming the whole body in an intangible and therefore uncontrollable way. Or are we mistaken, and is it all more about recognition by the exploited and excluded? But are we as anarchists not against all forms of delegation, of shining examples which often especially legitimize the proper resignation? Most certainly, our practices can be contagious, and our ideas even more, but only on the condition that they bring back the responsibility to act to each separate individual, when they are questioning the resignation as being an individual choice. To set alight the hearts, most certainly, but when lacking the oxygen of the proper conviction, the fire will extinguish fast and will in the best case be followed up by nothing more than some applauding for the upcoming martyrs. And even then, it would really be too ironic if the pre-eminently opponents of politics, the anarchists, would take over the torch of representation and, in the footsteps of the authoritarian predecessors separate the social conflictuality from the immediate subversion of all social roles, and do this in times when political mediation (political parties, unions, reformism) is slowly getting completely finished and outmoded in the facts. And it makes no difference if they want to do this by taking the head of social movements, speaking the big truth on popular assemblies or if they want to do it by means of a specific armed group.

 

Or is it all about striving for ‘coherence’? Unfortunately, those anarchists that exchange the quest for coherence for tactic agreements, nauseating alliances and strategic separations between the means and the goals have always existed. An anarchist coherence is beyond doubt as well to be found in the denial of all this. But this doesn’t mean that for example a certain condition of ‘clandestinity’ would be more coherent. When clandestinity is not regarded as a necessity (be it because repression is hunting or because it is necessary for certain action), but as some kind of top of revolutionary activity, there is not so much left over from the infamous a-legalism. In order to imagine this, it might suffice to compare it to the social situation in Europe: it is not because thousands of people are living a ‘clandestine’ situation by the fact (people without papers), that it makes them automatically and objectively into a threat to the legalism and crowns them as being ‘revolutionary subjects’. Why would it be different for anarchists living in clandestine conditions?

 

Or might it all be about frightening the enemy? A recurring element in claims is that apparently there are anarchists who believe they can frighten power by expressing threats, by publishing pictures of weapons or exploding little bombs (and let’s not talk about the despicable practice of sending letter bombs). In comparison to the daily slaughter organized by power it seems kind of naïve, especially to those who have no illusions left about more sensitive rulers, humanized capitalism, more honest relations inside of the system. If power would, despite her arrogance, already fear anything, then it would be the spreading of revolt, the sowing of disobedience, the uncontrolled igniting of the hearts. And off course, the lightning of repression will not spare those anarchists wanting to contribute to this, but it doesn’t prove in no way whatsoever how ‘dangerous’ we are, it maybe only speaks about how dangerous it would be when our ideas and practices would spread between excluded and exploited.

 

We are continuously surprised about how little the idea of some sort of shadow is able to please the contemporary anarchists that don’t want to resign, wait or build up mass organisations. We used to be proud about it: we would put all on all to make the swamp of social conflictuality extend and so making it impossible for the forces of repression and recuperation to penetrate. We didn’t go searching for the spotlights, neither for the glory of warriors: in the shadow, at the dark side of society we were contributing to the disturbance of normality, to the anonymous destruction of structures of control and repression, to the ‘liberation’ of time and space through sabotage, so that the social revolt could continue. And we used to diffuse our ideas proudly, in an autonomous way, without making use of the echo’s of the media, far away from the political spectacle, including the ‘oppositional’. An agitation which was not striving to be filmed, recognized, but which tried to fuel rebellion everywhere and forge ties with other rebels in the shared revolt.

 

It seems that today not just a few comrades have chosen for the easy solution of an identity over the circulation of ideas and revolt, and have in this way for example reduced affinity relations to a joining to something. Off course it is easier to pick up some ready made product out of the shelves of the militant market of opinions and consume it, rather than developing a proper struggle track which makes rupture with it. Off course it is easier to give oneself the illusion of strength by using a shared acronym, than to face the fact that the ‘strength’ of subversion is to be found in the degree and in the way it can attack the social body with liberating practices and ideas. Identity and ‘formation of a front’ might offer the sweet illusion to have meaning, especially in the spectacle of communication technology, but doesn’t clear off any obstacle from the road. Even more, it shows all of the symptoms of illness of a not so anarchist conception of struggle and revolution, which believes being able to pose in a symmetrical way an illusionary anarchist mastodon in front of the mastodon of power. The immediate consequence is the ever more narrowing of the horizon to a not so interesting introspection, some tapping on the back here and there and the construction of a framework of exclusive self-reference.

 

It wouldn’t surprise us if this mania would paralyse the anarchist movement again a bit more regarding our contribution to more and more frequent, spontaneous and destructive revolts. Being locked up in self-promotion and self-reference with a communication reduced to publishing claims on the internet, it doesn’t seem that anarchists will be able to do a lot (apart from the obligatory explosions and arsons, often against targets which the revolting people themselves are already very much destroying) when the situation is exploding in their neighbourhood. It seems that the closer we seem to get to the possibility of insurrections, the more tangible these possibilities are becoming, the less anarchists want to be busy with it. And this counts equally for those who are closing up themselves in some ideology of armed struggle. But what are we talking about when we speak about insurrectionary perspectives en insurrection? Definitely not only about a multiplication of attacks, and even less when those seem to tend towards the exclusive terrain of the anarchists with their fronts. Much more than a singular armed duel with the state, is insurrection the multiple rupture with the time, space and roles of domination, a necessary violent rupture which can signify the beginning of a subversion of the social relations. In that sense, insurrection is rather a social unchaining which goes further than a generalizing of revolt or riots, but which carries in her negation already the beginning of a new world, or in any case should. It is especially the presence of such a utopian tension which offers some grip against the return of normality and the recovery of the social roles after the big feast of destruction. So it may be clear that insurrection is not a purely anarchist matter, although our contribution to it, our preparation towards it, our insurrectional perspectives could in future times be beyond doubt important and maybe decisive for pushing the unchaining of the negation towards a liberating direction. A priory abandoning these difficult issues, which should gain importance in a world that is becoming more and more instable, by locking up ourselves in some identitarian ghetto and cherishing the illusion of developing ‘strength’ by common signatures and the ‘unification’ of anarchists that are prepared to attack, inevitably becomes the negation of all insurrectionary perspectives.

 

To get back to the world of fronts and acronyms, we could for example mention the obligatory references to imprisoned comrades as a clear sign of the restraining of ourselves in a frame of exclusive self-reference. It seems that once locked up by the state, these comrades are no longer comrades as we are, but especially ‘imprisoned’ comrades. In this way, the positions in their already difficult and painful debate are fixed in a way that can have only two exits: either the absolute glorification of our imprisoned comrades, either the absolute disgust which can very fast result into a renouncing of developing and embodying solidarity. Does it still make sense to continue repeating that our imprisoned comrades are neither positioned above nor under the other comrades, but simply in between them? Isn’t it remarkable that despite the many struggles against prisons, the current turn is again coming along with ‘political’ prisoners and abandoning a more general perspective of struggle against prison, justice,…? In this way we are in fact risking to complete what the state was already trying to concretize in the first place by locking up our comrades: by making them into abstract, idolized and central reference points, we are isolating them from the whole of the social war. Instead of looking for ways to maintain ties of solidarity, affinity and complicity across the walls, by placing everything in the middle of social war, the solidarity is shrinking into the quoting of names at the end of a claim. On top of that, this is generating a nasty circular motion without too much perspectives, a higher bid of attacks which are ‘dedicated’ to others rather than taking strength out of ourselves and out of the choice of when, how and why to intervene in given circumstances.

 

But the logic of armed struggle-ism is unstoppable. Once put into motion, it unfortunately becomes very difficult to counter. Everybody that doesn’t join and take up its defence is being compared to comrades that don’t want to act or attack, that submit revolt to calculations and masses, that only want to wait and are refusing the urge to put fire to the fuse here and now. In the deformed mirror, the refusal of the ideology of armed struggle equals the refusal of armed struggle itself. Off course this is not true, but who wants to hear that, there is no space for discussion left open for this. Everything is being reduced to a thinking into blocks, pro and against, and the path which we think is more interesting, the development of insurrectional projectualities is disappearing to the back. Under the applause of the formal libertarians and the pseudo-radicals as well as the repressive forces, who wouldn’t like anything more than the drying out of this swamp.

 

Because who still wants to discuss about projectuality today, when the only rhythm which seems to be given to the struggle is the sum of the attacks claimed on the internet? Who is still searching for a perspective that wants to do more than striking a bit? There is by the way no doubt about that: striking is necessary, here and now, and with all means which we think appropriate and opportune. But the challenge of the development of a projectuality, which aims at the attempt of unchaining, extending or deepening insurrectional situations, is demanding a bit more than the capacity to strike. It is demanding the development of proper ideas and not the repetition of other people’s words, the strength to develop a real autonomy in terms of struggle tracks and capacities; the slow and difficult search for affinities and the deepening of mutual knowledge; a certain analysis of the social circumstances in which we act; the courage for elaborating hypotheses for the social war in order to stop running behind the facts or ourselves. In short: it doesn’t only demand the capacity of using certain methods but especially the ideas of how, where, when and why to use them, and then especially in combination with a whole spectre of other methods. If not there will not be any anarchists left, but only a spectre of fixed roles: propagandists, squatters, armed strugglers, expropriators, writers, window breakers, rioters, etc. There wouldn’t be anything less painful than to be so much unarmed in front of the coming social storm that each one of us would have only one speciality left. There would be nothing worse than in explosive social situations having to determine that anarchists are too much occupied in their own garden to be able to really contribute to the explosion. It would give the most bitter taste of missed opportunities when we, by focussing exclusively on the identitarian ghetto, would abandon the discovery of our accomplices inside of the social storm, to forge ties of shared ideas and practices with other rebels, to break with all forms of mediated communication and representation and in this way opening up space for a true mutuality which is allergic to all power and domination.

 

But as always we refuse to despair. We are aware that many comrades are searching for possibilities to attack the enemy and to forge ties with other rebels throughout the spreading of anarchist ideas and struggle proposals, in a time and space which consequently abandons all political spectacle. It is probably the most difficult path, because it will never be rewarded. Not by the enemy, not by the masses and most probably neither by the other comrades and revolutionaries. But we are carrying a history inside of us, a history which is connecting us to all anarchists which will obstinately continue to refuse being locked up, be it inside of the ‘official’ anarchist movement, be it in the armed-struggle-ist reflection of it. Those that have always continued to refuse the spreading of ideas being separated from the ways in which we are spreading them, and in this way trying to exile all political mediation, including the claim. Those who don’t care much about who did this or that, but who connect it to their proper revolt, their proper projectuality which expands in the only conspiracy we are looking for: the one of the rebellious individualities for the subversion of the existent.

 

[November 20, 2011]

 

 

 

Lettre à la galaxie anarchiste

Sans y être invité, nous pénétrons par cette lettre dans un débat qui n’est pas le nôtre. Et qui ne sera jamais le nôtre, parce qu’il est posé sur un terrain qui nous semble rester stérile pour la quête des perspectives insurrectionnelles et les idées et activités anarchistes qui mettent leur attention là-dessus. Pourquoi alors écrire une telle lettre, pourrait-on se demander ? Parce qu’il n’y a rien qui nous est aussi chaud au cœur que la révolte libératrice et destructrice, que la lutte pour la subversion de l’existant ; parce que nous continuerons toujours à nous reconnaître dans tous les compagnons qui, poussés par un désir de liberté, vont à l’assaut des structures et des hommes de la domination ; parce que nous valorisons infiniment la force de la volonté individuelle, la recherche de la cohérence et le courage de malgré tout, essayer de mettre le feu à la poudrière. Ne considérez pas ces prémisses comme une vaine tentative de passer de la pommade ; elles sont sincères, tout comme l’est notre préoccupation face à l’amputation volontaire du champ de bataille anarchiste.

 

Ne mâchons pas les mots : plus que jamais, il y a besoin de l’intervention destructive des anarchistes, plus que jamais, c’est le moment d’intensifier nos combats, d’aller à la recherche de possibilités et d’hypothèses pour étendre la révolte, rendre possible l’insurrection et accélérer ainsi le possible bouleversement de ce monde. Mais ce besoin et cette pulsion ne nous exempte pas de l’obligation de réfléchir sur le quoi, où, quand, comment et pourquoi.

 

Pour ne pas y aller par quatre chemins : quelles raisons poussent des anarchistes (sachant qu’on n’a pas de problèmes à comprendre les raisons des autoritaires) à revendiquer systématiquement leurs actes et à les signer avec des sigles entretemps devenus mondiaux? Qu’est-ce qui leur porte à croire que la question difficile des perspectives peut être résolue en mettant une revendication sur internet ou en l’envoyant aux médias ? Qu’est-ce qui fait qu’aller sur un tel chemin semble aujourd’hui être associé à une profonde forme de cohérence entre penser et agir, entre idées et pratiques, alors qu’il s’agit plutôt d’une liquidation illusoire de la tension permanente entre la théorie et la pratique, celle qui devrait exister et qui est certes la force propulsive derrière la lutte anarchiste ?

 

Cette manie qui semble faire boule de neige, risque d’éclipser rapidement les autres actes de révolte. Non seulement les actes des anarchistes qui se passent joyeusement de la pilule amère et toujours décevante de la revendication, mais aussi et peut-être surtout plus généralement tout le panorama de rébellion et de conflictualité sociale. Voilà peut-être une des « raisons » qui nous a incités à écrire ce texte. En avoir marre d’éprouver et de constater que le champ de bataille anarchiste, le champ de bataille de l’attaque, du sabotage et de l’expropriation sont toujours plus assimilés avec un sigle et en tant que tel, avec une représentation politique ; en avoir marre de voir comment les horizons se réduisent faussement à deux choix contradictoires uniquement en apparence : soit on choisit pour l’anarchisme « gentil » et on se met à courir derrière des assemblées, des mouvements populaires et des syndicats de bases ; soit on choisit l’anarchisme « méchant », et alors on est gentiment prié de tamponner ses contributions à la guerre sociale avec un sigle – et sinon, d’autres le feront à ta place.

 

Car nous aussi, nous passons à l’attaque. Nous aussi, nous sortons pour saboter la machinerie du capital et de l’autorité. Nous aussi, nous choisissons au quotidien de ne pas accepter une position de mendiant et de ne pas ajourner l’expropriation nécessaire. Seulement, nous pensons que nos activités font simplement partie d’une conflictualité sociale plus large, une conflictualité qui n’a besoin ni de revendications ni de sigles. Seulement, nous pensons que ce n’est que quand les actes sont anonymes, qu’ils peuvent être appropriés par tout le monde. Seulement, nous pensons que tamponner des actions d’attaque les catapulte du champ social vers le champ politique, vers le champ de la représentation, de la délégation, de la séparation entre acteurs et spectateurs. Et comme ça a souvent été répété dans ce type de débats, il ne suffit pas de proclamer le refus de la politique pour qu’il soit effectif. Le refus de la politique se trouve entre-autres dans la cohérence entre les moyens et les fins, et il n’y a pas d’instrument plus politique que la revendication, tout comme le sont la carte-membre, le programme et la déclaration des principes de base.

 

De plus, on voit bien sévir une confusion qu’on veut, une fois de plus, souligner et combattre, car il nous est indigeste de continuer à observer des significations qu’on donne ces jours à certains concepts, comme par exemple l’informalité. Le choix pour un mouvement anarchiste informel et autonome, c’est un choix qui signifie le refus des structures fixes, des organisations de membres, des fédérations centralisatrices et unificatrices ; et donc aussi de signatures qui reviennent tout le temps, si ce n’est de toute signature. C’est le refus de dresser des programmes, c’est le bannissement de tous les moyens politiques ; et donc aussi des revendications programmatiques, peut importe s’ils s’auto-dénomment, digitalement, formels ou bien « informels ». En sens positif, l’informalité est pour nous un archipel sans bornes et non circonscrit de groupes autonomes et d’individus autonomes, qui entre eux forgent des liens basés sur l’affinité et la connaissance réciproque et qui, sur cette base là, décident de réaliser des projets communs. C’est le choix pour des cercles petits et affinitaires qui font de leur autonomie, leurs perspectives et leurs méthodes d’action la base pour construire des liens avec d’autres. L’organisation informelle n’a donc rien à voir avec des fédérations, des acronymes ou des sigles. Et que faisait parler certains compagnons non seulement d’informalité, mais aussi d’« insurrectionalisme » ? Au péril de ternir l’ample panorama d’idées, d’analyses, d’hypothèses et de propositions, on pourrait dire que « l’insurrectionalisme » est l’ensemble des méthodes et des perspectives qui, en partant d’un anarchisme sans compromis, cherchent à contribuer à des « situations insurrectionnelles ». L’arsenal des méthodes dont y disposent les anarchistes, est énorme. Il faut comprendre que l’utilisation de certaines méthodes (agitation, attaque, propositions organisatrices etc.) ne signifient en soi que très peu : ce n’est que dans une projectualité réfléchie et évoluant qu’elles acquièrent leur sens dans la lutte. Brûler un bâtiment de l’Etat est sans doute toujours bon, mais ne signifie pas en soi de s’inscrire dans une perspective insurrectionnelle. Et ceci vaut encore moins pour le choix de, par exemple, cibler les attaques plutôt contre des objectifs centraux et médiatiques avec la confession de foi qui en va de pair ensuite. Ce n’est pas un hasard si dans les différents moments de projectualités insurrectionnelles, l’emphase a surtout été mis sur des attaques modestes, reproductibles et anonymes contre les structures et les hommes toujours plus décentralisés de la domination, ou sur la nécessité de sabotages ciblés d’infrastructures, des sabotages qui n’ont besoin d’aucun écho médiatique pour atteindre leur but, c’est-à-dire la paralysie, par exemple, des flux de transports, de données et d’énergie du pouvoir.

 

Il nous semble que derrière l’actuelle manie de revendications ne se cachent pas trop de perspectives – ou au moins, nous avons du mal à les apercevoir. En effet, et par là nous ne voulons d’aucune manière enlever quoi ce soit à la rébellion sincère et courageuse de ces compagnons, il semble que c’est surtout la reconnaissance qui est recherchée. Une reconnaissance par l’ennemi, qui complètera rapidement ses listes d’organisations terroristes, signifie souvent le début de la fin : l’ennemi se met alors en route pour isoler une partie de la conflictualité plus large. Un isolement qui n’est pas seulement le présage de la répression (et en fait, ceci ne compte pas vraiment, car la répression est toujours là – loin de nous de commencer à pleurer sur le fait que le pouvoir suive les activités anarchistes avec défiance, et donc les poursuit), mais surtout, et voilà le plus important, que c’est la meilleure manière pour contrer une éventuelle contamination. Dans l’état actuel du corps social, qui est malade et en train de pourrir, le pouvoir ne peut se souhaiter rien de mieux qu’un couteau bien reconnaissable et circonscrit qui essaye d’entailler un peu ici et là, et il n’y a rien qu’il craint plus qu’un virus qui risque de contaminer de façon insaisissable et donc incontrôlable tout le corps. Ou est-ce qu’on se trompe et s’agit-il peut-être d’une reconnaissance par les exploités et les exclus ? Mais est-ce que ne sommes-nous, les anarchistes, justement pas les ennemis de toute forme de délégation, d’exemples illuminés qui souvent ne font que légitimer la propre résignation ? Certes, nos pratiques peuvent être contagieuses, nos idées d’ailleurs encore plus, mais uniquement quand elles remettent la responsabilité d’agir à chaque individu particulier, distinct ; que quand elles démasquent la résignation comme étant un choix individuel. Faire enflammer les cœurs, certainement, mais quand elles ne disposent pas de l’oxygène d’une propre conviction, elles s’éteindront rapidement et s’en suit, dans le « meilleur » des cas, qu’un peu d’applaudissements pour les martyres en devenir. Et encore, car maintenant que la médiation politique (partis, syndicats, réformisme) s’épuise petit-à-petit et devient de fait dépassée ; maintenant que la rage peut librement tendre les mains vers tout ce qui détruit la vie, il serait vraiment trop ironique si les insoumis de la politique par excellence, les anarchistes, reprennent le flambeau de la représentation et, en suivant l’exemple des prédécesseurs autoritaires, séparent la conflictualité sociale de la subversion immédiate de tous les rôles sociaux. Et peu importe s’ils voudraient faire ça en se mettant à la tête des mouvements sociaux, en entraînant par la rhétorique des assemblées populaires ou en tant que groupe armé spécifique.

 

Ou s’agit-il d’une aspiration vers la « cohérence » ? Malheureusement, il y en a toujours eu de ces anarchistes qui échangent la recherche de la cohérence pour des accords tactiques, des alliances écœurantes et des séparations stratégiques entre les moyens et les fins. Une cohérence anarchiste se trouve entre-autres certes dans la négation de tout ça. Mais par ça, ce n’est pas dit que par exemple une certaine condition de « clandestinité » serait plus cohérente. Quand la clandestinité n’est plus vue comme une nécessité, que ce soit à cause de la chasse répressive ou parce que sinon, il devient impossible de réaliser certaines actions, mais plutôt comme une espèce de summum d’activité révolutionnaire, il y a peu qui reste encore debout du fameux a-légalisme. Au lieu de rechercher la cohérence au-delà des lois et des commandements et donc d’accepter l’affrontement, le légalisme est simplement renversé en « illégalisme » où, tout comme dans le légalisme, le caractère subversif d’activités est quantifié et mesuré par la possible peine de prison correspondant. Le refus du légalisme n’est certainement pas la même chose que le choix absolu pour « l’illégalisme ». Il suffirait peut-être de faire un parallèle facile avec la situation sociale en Europe pour s’en faire une image : ce n’est pas parce que des milliers de gens se retrouvent de fait dans une situation de « clandestinité » (les sans-papiers), qu’ils deviennent alors automatiquement et objectivement une menace pour le légalisme et pourraient ainsi être perçus comme des « sujets révolutionnaires ». Pourquoi serait-il autrement pour des anarchistes qui se retrouvent dans une condition de clandestinité ?

 

Ou s’agit-il de faire peur à l’ennemi ? Comme on le rencontre assez souvent dans les revendications, il existe apparemment des anarchistes qui croient pouvoir faire peur au pouvoir en faisant des menaces, en publiant des photos d’armes ou en faisant exploser quelques bombes (et parlons même pas de la pratique abjecte d’envoyer pêle-mêle des colis-piégés). Face aux massacres quotidiens organisés par le pouvoir, ceci témoigne d’une particulière naïveté, surtout pour des ennemis du pouvoir qui ne se font pas d’illusions par rapport à des puissants plus compréhensifs, un capitalisme à visage humain, des rapports plus justes à l’intérieur du système. Si, malgré toute son arrogance, le pouvoir craint quelque chose, ce serait certes la diffusion de la révolte, la dissémination de la désobéissance, les cœurs qui s’enflamment hors de tout contrôle. Et c’est clair que les éclairs de la répression n’épargneront aucunement les anarchistes qui veulent y contribuer, mais ceci ne prouve d’aucune manière combien « dangereux » nous sommes. La seule chose que ceci voudrait peut-être dire, c’est combien dangereux serait-il si nos idées et pratiques se diffusaient parmi les exclus et les exploités.

 

Ça continue alors de nous étonner combien l’idée d’une sorte d’ombre ne séduit plus les anarchistes d’aujourd’hui, au moins, ces anarchistes qui ne veulent pas se résigner, attendre ou construire à l’infini des organisations de masses etc. Autrefois on en était fier : faire tout notre possible pour faire étendre le marécage de la conflictualité sociale et le rendre ainsi impénétrable pour les forces de la répression et de la récupération. On n’était pas à la recherche de la lumière des spots, ni à la gloire des guerriers ; dans l’ombre, dans la partie obscure de la société, on faisait notre contribution à la perturbation de la normalité, à la destruction anonyme des structures du contrôle et de la répression, à la « libération » par le sabotage de l’espace et le temps pour que les révoltes sociales puissent poursuivre leurs cours. Et fièrement, on diffusait ces idées, de manière autonome, sans avoir recours à des échos médiatiques, loin du spectacle politique, même « oppositionnel ». Une agitation qui ne recherchait pas à être filmée, à être reconnue, mais qui voulait partout encourager la rébellion et forger des liens, dans cette révolte partagée, avec d’autres rebelles.

 

Aujourd’hui nombre de compagnons semblent préférer la solution facile d’une identité à la diffusion des idées et de la révolte, réduisant ainsi par exemple les relations affinitaires à l’adhérer à quelque chose. Evidemment, il est plus facile de prendre et de consommer des opinions prêtes-à-porter des rayons du supermarché militant, plutôt que d’élaborer un propre parcours de lutte qui en rompt avec. Evidemment, il est plus facile de se donner l’illusion de force par un sigle partagé que de comprendre que la « force » de la subversion se cache dans la mesure et la manière où elle réussit à contaminer le corps social avec des idées et des pratiques libératrices. L’identité et « la formation d’un front » offrent peut-être la douce illusion de signifier quelque chose, surtout dans le spectacle des technologies de communication, mais ne détruit pas le moindre obstacle. Pire encore, ceci manifeste tous les symptômes d’une vision peu anarchiste sur la lutte et la révolution, une vision qui croit pouvoir mettre en place, face au mastodonte du pouvoir, de manière symétrique, un illusoire mastodonte anarchiste. La conséquence inévitable, c’est l’horizon qui rétrécit et qui finit par du nombrilisme peu intéressant, quelques coups sur les épaules ici et là et la construction d’un exclusif cadre autoréférentiel.

 

Il ne nous étonnerait pas que cette manie paralyserait d’avantage le mouvement anarchiste autonome quand il s’agit de notre contribution aux révoltes toujours plus fréquentes, spontanées et destructives. Enfermés dans l’autopromotion et l’autoréférentiel, avec une communication qui se réduit à la publication de revendications sur internet, il ne semble pas que les anarchistes puissent faire grand-chose quand le bordel éclatera près de chez eux (à part les quelques explosions et incendies habituels, souvent contre des cibles que les révoltés eux-mêmes étaient déjà très bien en train de détruire). Au plus que nous semblons approcher la possibilité d’insurrections, au plus palpable ces possibilités deviennent, au plus les anarchistes semblent apparemment ne plus vouloir s’intéresser à l’insurrection. Et ceci vaut aussi bien pour ceux qui se noient dans le repris du rôle de la gauche mourante que ceux qui sont en train de s’enfermer dans une quelconque idéologie de la lutte armée. Mais clarifions un instant ce dont il s’agit quand on parle de perspectives insurrectionnelles et d’insurrection. Il ne s’agit là certainement pas d’une simple multiplication du nombre d’attaques, et encore moins quand celles-ci semblent (vouloir) devenir le terrain exclusif des anarchistes avec leurs fronts. Beaucoup plus qu’un duel armé au singulier avec l’Etat, l’insurrection est la rupture multiple avec le temps, l’espace et les rôles de la domination, une rupture forcément violente, qui pourrait devenir le début d’une subversion des rapports sociaux. Dans ce sens, l’insurrection est plutôt un déchainement social qui dépasse le simple fait de la généralisation de la révolte ou des émeutes, et qui porte dans sa négation déjà le début d’un nouveau monde, ou au moins, devrait le porter en soi. C’est surtout la présence d’une telle tension utopique qui offre quelque point d’appui contre le retour à la normalité et la restauration des rôles sociaux après la grande fête de la destruction. Qu’il soit donc clair que l’insurrection n’est pas une affaire uniquement des anarchistes, même si notre contribution, notre préparation, nos perspectives insurrectionnelles sont sans le moindre doute importantes et deviendront, dans l’avenir, peut-être même décisives pour pousser le déchainement de la négation dans une direction libératrice. Dans un monde qui devient chaque jour plus instable, ces questions difficiles devraient justement retourner sur l’avant-plan, y renoncer à priori en s’enfermant dans un quelconque ghetto identitaire et en entretenant l’illusion de développer « de la force » à travers des sigles collectifs et « l’unification » des anarchistes prêts à attaquer, devient alors irrémédiablement la négation de toute perspective insurrectionnelle.

 

En retournant vers le monde des fronts et des sigles, on pourrait par exemple comprendre comme signe précurseur du proche enfermement dans un cadre autoréférentiel, les références obligées aux compagnons incarcérés. Il semble qu’une fois des compagnons incarcérés par l’Etat, ils ne sont plus des compagnons comme nous tous, mais surtout des compagnons « incarcérés ». Les positions dans ce débat déjà difficile et pénible sont tellement fixées qu’il ne reste que deux options : soit l’exaltation absolue de nos compagnons incarcérés, soit le dégoût absolu qui s’enraye vite dans un renoncement à encore donner corps et âme à la solidarité. Y-a-t-il encore du sens à répéter que nos compagnons qui se trouvent dans les geôles ne se trouvent pas au-dessus ou en-dessous des autres compagnons, mais simplement parmi eux ? Est-ce qu’il n’est pas effrayant de voir que malgré les nombreuses luttes contre la prison, l’actuel tournant revient de nouveau avec les discours sur les « prisonniers politiques », désertant une perspective plus large de lutte contre la prison, la justice etc. ? En fin de compte, nous risquons d’achever ce que l’Etat cherchait à obtenir en enfermant nos compagnons : en en faisant des points de références centrales, abstraits et à exalter, on les isole de l’ensemble de la guerre sociale. Au lieu de chercher des manières pour entretenir au-delà des murs des liens de solidarité, d’affinité et de complicité en plaçant le tout radicalement au sein de la guerre sociale, la solidarité se borne à citer les noms à la fin d’une revendication. Ceci génère en plus un mouvement en cercle assez vicieux sans trop de perspectives, une surenchère en attaques « dédiées » à d’autres, plutôt que de trouver la force dans soi-même et dans le choix du quand, comment et pourquoi intervenir dans les conditions données.

 

Mais la logique du luttarmatisme est implacable. Une fois mise en route, il semble que peut reste encore à en faire. Tous ceux qui n’adhérent pas ou n’en prennent pas la défense, sont assimilés à des compagnons qui ne veulent pas agir ni attaquer, qui soumettent la révolte à des calculs et des masses, qui ne veulent qu’attendre et rejettent l’impulsion de mettre ici et maintenant le feu à la poudrière. Dans le miroir déformant, le refus de l’idéologie de la lutte armée devient le refus de la lutte armée tout court. Evidemment, il n’y a rien de moins vrai, mais il n’y a plus d’oreilles qui veuillent entendre ça, l’espace de discussion est asséché. Tout est réduit à penser dans des blocs, pour ou contre, et la voie, selon nous la plus intéressante, du développement des projectualités insurrectionnelles, est définitivement mise de côté. A la grande joie des libertaires formels et des pseudo-radicaux que comme des forces répressives, qui ne veulent rien de plus que l’assèchement de ce marécage.

 

Car qui veut aujourd’hui encore discuter sur des projectualités quand le seul rythme qu’on donne à la lutte, est devenu la somme des attaques revendiquées sur internet ? Qui est encore à la recherche d’une perspective qui veut faire plus que juste rendre quelques coups ? Et, répétons-le, aucun doute là-dessus : donner des coups est nécessaire, ici et maintenant, et avec tous les moyens que nous croyons adéquats et opportuns. Mais le défi de développer une projectualité, qui vise à essayer de faire déchainer, faire étendre ou faire approfondir des situations insurrectionnelles, exige bien plus que juste la capacité de donner des coups. Ça exige le développement des idées propres et non pas répéter ce que d’autres disent ; la force de développer une réelle autonomie en termes de parcours de lutte et de capacités ; la quête lente et difficile d’affinités et d’approfondissement de la connaissance réciproque ; une certaine analyse des conditions sociales dans lesquelles nous agissons ; le courage de jeter des hypothèses pour la guerre sociale afin de ne plus courir derrière les faits, ou derrière nous-mêmes. Bref, ça n’exige pas uniquement la capacité de savoir utiliser certaines méthodes, mais surtout les idées sur comment, où, quand et pourquoi les utiliser, et là encore dans un mélange nécessaire avec tout un éventail d’autres méthodes. Sinon, il ne restera plus d’anarchistes, mais juste une série de rôles bien tristes et circonscrits : des propagandistes, des squatteurs, des combattants armés, des expropriateurs, des écrivains, des casseurs, des émeutiers et ainsi de suite. Rien ne serait plus pénible que de se retrouver, face à la possibilité de la tempête sociale à venir, tellement désarmés que chacun ne dispose d’une seule spécialité. Rien ne serait plus fâcheux de devoir constater dans des conditions sociales explosives, que les anarchistes s’occupent trop de leur petit jardin pour être capables de réellement contribuer à l’explosion. Rien n’aurait plus le goût amer d’occasions ratées quand, par le focus exclusif sur le ghetto identitaire, on renonce à découvrir nos complices dans la tempête sociale, à forger des liens d’idées et de pratiques partagées avec d’autres rebelles, à rompre avec toutes les formes de communication médiée et de représentation afin d’ouvrir de l’espace pour une vraie réciprocité qui se fait allergique à tout pouvoir et domination.

 

Mais comme toujours, nous refusons de désespérer. Nous savons qu’encore beaucoup de compagnons tâtent, dans l’espace et le temps où tout spectacle politique est conséquemment banni, les possibilités pour atteindre l’ennemi et pour forger, à travers la diffusion d’idées anarchistes et de propositions de lutte, des liens avec d’autres rebelles. C’est probablement le chemin le plus difficile, car jamais il n’y aura de reconnaissance pour ça. Ni de l’ennemi, ni des masses et en toute probabilité, ni d’autres compagnons et révolutionnaires. Mais nous portons en nous une histoire, une histoire qui nous relie avec tous les anarchistes qui ont ardemment continué à refuser de se laisser inclure, que ce soit dans le mouvement anarchiste « officiel » ou dans le reflet luttarmiste de celui-là. Qui ont toujours continué à refuser de détacher la diffusion de nos idées de la manière dont on les diffuse, et cherchaient donc à bannir ainsi toute médiation politique, la revendication incluse. Qui sont peu intéressés à savoir qui a fait ceci ou cela, mais qui le relient avec leur propre révolte, avec la propre projectualité qui se déploie dans la seule conspiration que nous voulons : celle des individualités rebelles pour la subversion de l’existant.

 

[20 novembre 2011]

 

Brief an die anarchistische Galaxie

Ohne Einladung, dringen wir mit diesem Brief in eine Debatte ein, die nicht die unsere ist. Eine Debatte, die nie die unsere sein wird, da sie sich auf einem Terrain abspielt, das uns für die Suche nach aufständischen Perspektiven und damit einhergehenden anarchistischen Ideen und Aktivitäten unfruchtbar scheint. Aber wieso dann, könnte man sich fragen, einen solchen Brief verfassen? Weil es nichts gibt, das unsere Herzen mehr erwärmt, als die befreiende und zerstörende Revolte, als der Kampf für die Subversion des Bestehenden; weil wir uns weiterhin immer in allen Gefährten wiedererkennen werden, die, angetrieben von einem Verlangen nach Freiheit, zum Angriff auf die Strukturen und Menschen der Herrschaft übergehen; weil wir der Kraft des individuellen Willens, der Suche nach Kohärenz und dem Mut, der trotz allem das Feuer an die Lunte zu legen versucht, einen unendlich grossen Wert beimessen. Betrachtet diese Bemerkungen also nicht als einen vergeblichen Versuch, gefällig zu sein; sie sind ehrlich, ebenso wie unsere Besorgnis angesichts der willentlichen Verstümmelung des anarchistischen Kampffeldes.

Lasst uns kein Blatt vor den Mund nehmen: die zerstörerische Intervention der Anarchisten braucht es mehr denn je, und mehr denn je ist heute der Moment, unsere Kämpfe zu intensivieren, uns auf die Suche nach Möglichkeiten und Hypothesen zu machen, die die Revolte ausweiten, den Aufstand möglich machen und somit die Möglichkeit vorantreiben könnten, diese Welt umzuwälzen. Doch dieser Bedarf und dieser Antrieb entheben uns nicht der Notwendigkeit, über das Was, Wo, Wann, Wie und Wieso nachzudenken.

Kommen wir gleich auf den Punkt: welche Beweggründe treiben Anarchisten dazu an (wohl bemerkt, dass sie bei den Autoritären unschwer zu erkennen sind), ihre Aktionen systematisch zu bekennen und sie mit mittlerweile global gewordenen Sigeln zu unterzeichnen? Was macht sie glauben, die schwierige Frage der Perspektiven durch ein ins Internet gestelltes oder den Medien zugeschicktes Bekennerschreiben lösen zu können? Was treibt sie dazu an, zu glauben, dass sich heute auf einen solchen Weg zu begeben mit einer tiefen Form von Kohärenz zwischen Denken und Handeln, zwischen Ideen und Praktiken verbunden sei, während es sich dabei vielmehr um eine illusorische Auflösung der permanenten Spannung zwischen Theorie und Praxis handelt, jener Spannung, die da sein müsste und die die antreibende Kraft hinter dem anarchistischen Kampf ist?

 

Diese Manie, die lawinenartig anzuwachsen scheint, läuft schnell Gefahr, die anderen Akte der Revolte in den Schatten zu stellen. Nicht nur die Akte der Anarchisten, die mit Freude ohne die bittere Pille auskommen und über die Bekennerschreiben stets enttäuscht sind, sondern auch und vielleicht vor allem allgemeiner das ganze Panorama von Rebellionen und sozialer Konfliktualität. Dies ist einer der „Gründe“, die uns antrieben, diesen Text zu verfassen. Wir haben es satt, die Tatsache hinzunehmen und immer öfters feststellen zu müssen, dass das anarchistische Kampffeld, jenes des Angriffs, der Sabotage und der Enteignung mit einem Kennzeichen und, als solches, mit einer politischen Repräsentation gleichgesetzt wird; wir haben genug davon, zu sehen, wie sich die Horizonte fälschlicherweise auf zwei Entscheidungen beschränken, die einander scheinbar gegenüberstehen: entweder man entscheidet sich für den „lieben“ Anarchismus und rennt den Vollversammlungen, den sozialen Bewegungen und den Basisgewerkschaften hinterher, oder man wählt den „bösen“ Anarchismus und ist somit freundlich gebeten, seine Beiträge zum sozialen Krieg mit einem Sigel zu versehen – und falls nicht, werden es andere an unserer Stelle tun.

Denn auch wir gehen zum Angriff über. Auch wir ziehen los, um die Maschinerie des Kapitals und der Autorität zu sabotieren. Auch wir entscheiden uns täglich, keine Bettlerposition zu akzeptieren und die notwendige Enteignung nicht zu vertagen. Nur denken wir, dass unsere Aktivitäten schlicht Teil einer breiteren sozialen Konfliktualität ausmachen, einer Konfliktualität, die weder Bekennerschreiben noch Sigel braucht. Nur denken wir, dass ein Akt nur einem jeden gehören kann, wenn er anonym ist. Nur denken wir, dass den Angriffsaktionen einen Stempel aufzudrücken, sie vom sozialen Feld ins politische Feld katapultiert, ins Feld der Repräsentation, der Delegation, der Trennung zwischen Akteuren und Zuschauern. Und, wie es in solchen Debatten schon oft wiederholt wurde, genügt es nicht, die Zurückweisung der Politik zu proklamieren, damit es auch wirklich so ist. Die Zurückweisung der Politik findet sich unter anderem in der Kohärenz zwischen Mitteln und Zwecken, und es gibt kein politischeres Instrument als das Bekennerschreiben, so wie es auch die Mitgliederkarte, das Programm und die Grundsatzerklärung sind.

Wir sehen ausserdem auch, wie eine Verwirrung um sich greift, die wir einmal mehr unterstreichen und bekämpfen wollen. Denn es dreht uns den Magen um, weiterhin die Bedeutungen zu akzeptieren, die gegenwärtig gewissen Konzepten wie beispielsweise der Informalität gegeben werden. Die Entscheidung für eine informelle und autonome anarchistische Bewegung bedeutet die Zurückweisung von starren Strukturen, von formellen Organisationen, von zentralisierenden und vereinheitlichenden Föderationen; also auch von sich wiederholenden Markenzeichen, wenn nicht von jeglichen Markenzeichen. Es ist die Weigerung, Programme aufzustellen, es ist die Verbannung aller politischen Mittel; und somit auch der programmatischen Bekennerschreiben, egal ob sie sich nun selbst digital als formell oder eher als „informell“ definieren. Im positiven Sinne ist die Informalität für uns ein grenzenloses und unbeschränktes Archipel aus autonomen Gruppen und autonomen Individuen, die die auf Affinität und gegenseitiger Kenntnis basierenden Verbindungen unter sich verfestigen und auf diesen Grundlagen entscheiden, gemeinsame Projekte zu realisieren. Es ist die Entscheidung für kleine Affinitätskreise, die aus ihrer Autonomie, ihrer Perspektive und ihren Aktionsmethoden die Grundlage machen, um Verbindungen mit anderen aufzubauen. Die informelle Organisation hat also nichts mit Föderationen, Akronymen und Sigeln zu tun. Aber was treibt dann einige Gefährten dazu an, nicht nur von Informalität, sonder auch von „Insurrektionalismus“ zu sprechen? Auf die Gefahr hin, das breite Panorama von Ideen, Analysen, Hypothesen und Vorschlägen zu schmälern, könnte man den „Insurrektionalismus“ als die Gesamtheit der Methoden und Perspektiven definieren, die ausgehend von einem kompromisslosen Anarchismus versuchen, zu „aufständischen Situationen“ beizutragen. Das Arsenal an Methoden, über die die Anarchisten verfügen ist enorm. Es ist wichtig, zu verstehen, dass der Gebrauch von gewissen Methoden (Agitation, Angriff, organisatiorische Vorschläge, etc.) an und für sich sehr wenig bedeutet: erst in einer überlegten und sich in Entwicklung befindlichen Projektualität erhalten sie ihre Bedeutung im Kampf. Ein Gebäude des Staates niederzubrennen ist immer etwas gutes, doch an sich bedeutet es nicht, dass das in einer aufständischen Perspektive steht. Und dies gilt noch weniger, wenn die Angriffe mit einer einhergehenden Glaubensbekenntnis gegen zentrale und medienwirksame Ziele gerichtet sind. Es ist kein Zufall, wenn in den verschiedenen Momenten von aufständischen Projektualitäten der Nachdruck vor allem auf anspruchslose, reproduzierbare und anonyme Angriffe gegen die eher peripheren Strukturen und Menschen der Herrschaft oder auf die Notwendigkeit der gezielten Sabotage von Infrastrukturen gelegt wurde, Sabotage, die überhaupt kein mediales Echo braucht, um ihr Ziel zu erreichen, wie beispielsweise die Lahmlegung der Transport-, Daten oder Energieflüsse der Macht.

Es scheint uns, dass sich hinter der gegenwärtigen Bekennerschreibenmanie nicht allzu viele Perspektiven verbergen – oder zumindest fällt es uns schwer, sie zu erkennen. Im Grunde scheint es, und damit beabsichtigen wir in keinster Weise der ehrlichen und mutigen Rebellion dieser Gefährten irgendetwas abzusprechen, dass es vor allem die Anerkennung ist, die gesucht wird. Eine Anerkennung von Seiten des Feindes, der seine Liste der terroristischen Organisationen schnell ergänzen wird, ist oft der Anfang vom Ende: der Feind macht sich also daran, einen Teil der breiteren Konfliktualität zu isolieren. Eine Isolierung, die nicht nur ein Vorzeichen der Repression ist (das wäre noch das geringste, schliesslich ist die Repression immer präsent – es liegt uns fern, darüber zu jammern, dass die Macht die Aktivitäten der Anarchisten verfolgt), sondern vor allem, und dies ist der wichtigste Aspekt, die beste Art ist, um eine potenzielle Ansteckung zu verhindern. Im aktuellen Stadium des Gesellschaftskörpers, der krank und faulend ist, kann sich die Macht nichts besseres Wünschen als ein gut erkennbares und konturiertes Messer, das hier und da etwas einzuschneiden versucht, doch es gibt nichts, dass sie mehr fürchtet, als ein Virus, der Gefahr läuft, den ganzen Körper auf unbegreifliche und folglich unkontrollierbare Weise anzustecken. Oder vielleicht irren wir uns ja und es geht um eine Anerkennung von Seiten der Ausgebeuteten und Ausgeschlossenen? Aber sind nicht eben wir, die Anarchisten, Feinde jeglicher Form von Delegation, von erleuchteten Beispielen, die oft nichts anderes tun, als die eigene Resignation zu legitimieren? Gewiss können unsere Praktiken ansteckend sein, unsere Ideen übrigens noch viel mehr, aber nur, wenn wir die Verantwortung zu handeln auf jedes einzelne Individuum separat legen; wenn wir die Resignation als eine individuelle Entscheidung entlarven. Wir können die Herzen entflammen, gewiss, aber wenn sie nicht über den Sauerstoff einer eigenen Überzeugung verfügen, werden sie schnell ersticken und, im „besten“ Falle, folgt daraus etwas Applaus für die werdenden Märtyrer. Gerade jetzt, da sich die politische Vermittlung (Parteien, Gewerkschaften, Reformismus) Stück für Stück erschöpft hat und im Grunde zurückgelassen wurde; jetzt, da die Wut die Hände frei nach all dem ausstrecken kann, was das Leben zerstört, wäre es wirklich der Gipfel, wenn die Un-unterworfenen der Politik par excellance, die Anarchisten, die Fackel der Representation wieder aufnehmen und, dem Beispiel der vorangegangenen Autoritären folgend, die soziale Konfliktualität von der unmittelbaren Subversion aller sozialen Rollen trennen würden. Und es ist dabei relativ unwichtig, ob sie dies tun wollen, indem sie sich an den Kopf von sozialen Bewegungen stellen, sie mit der der Rethorik der Volksvollversammlungen mitreissend, oder als spezifische bewaffnete Gruppe.

Oder geht es um ein Streben nach „Kohärenz“? Unglücklicherweise gibt es seit jeher Anarchisten, die die Suche nach Kohärenz gegen taktische Abkommen, widerliche Allianzen und strategische Trennungen zwischen den Mitteln und den Zwecken eintauschen. Eine anarchistische Kohärenz findet sich, unter anderem, gewiss in der Negation von all dem. Doch damit ist nicht gesagt, dass zum Beispiel ein „Klandestinitäts“-Verhältnis kohärenter sei. Wenn die Klandestinität nicht mehr als eine Notwendigkeit, aufgrund der repressiven Jagd oder weil es ansonsten unmöglich wäre, gewisse Aktionen zu realisieren, sondern vielmehr als eine Art Spitze der revolutionären Aktivität betrachtet wird, bleibt nicht mehr viel übrig vom berühmten A-Legalismus. Anstatt die Kohärenz jenseits der Gesetze und Befehle zu suchen und folglich die Konfrontation zu akzeptieren, wird der Legalismus schlicht zu einem „Illegalismus“ umgedreht, bei welchem, ebenso wie im Legalismus, der subversive Charakter der Aktivitäten durch die entsprechende potenzielle Gefängnisstrafe quantifiziert und bemessen wird. Die Zurückweisung des Legalismus ist nicht dasselbe wie die absolute Entscheidung für den Illegalismus. Es würde bereits genügen, einen einfachen Vergleich mit der sozialen Situation in Europa zu ziehen, um sich ein Bild davon zu machen: nur weil sich tausende Menschen de facto in einer Situation von „Klandestinität“ befinden (die Sans-Papiers), ist es dennoch nicht so, dass sie automatisch und objektiv zu einer Bedrohung für den Legalismus werden und somit als „revolutionäre Subjekte“ betrachtet werden können. Wieso sollte das für die Anarchisten anders sein, die sich in einer Situation der Klandestinität befinden?

Oder vielleicht geht es darum, dem Feind Angst zu machen? Wie man in den Bekennerschreiben oft genug sehen kann, gibt es scheinbar Anarchisten, die glauben, der Macht Angst machen zu können, indem sie Drohungen aussprechen, Fotos von Waffen publizieren oder einige Bomben explodieren lassen (und wir sprechen noch nicht einmal von der niederträchtigen Praxis, aufs geratewohl Packetbomben zu verschicken). Gegenüber den von der Macht organisierten, alltäglichen Massakern, zeugt dies von einer besonderen Naivität, vor allem für die Feinde der Macht, die sich keine Illusionen über verständnisvollere Machthaber, einen Kapitalismus mit menschlichem Gesicht oder korrektere Verhältnisse im Innern des Systems machen. Wenn die Macht, trotz all ihrer Arroganz, etwas fürchtet, dann zweifellos die Verbreitung der Revolte, die Streuung der Ununterworfenheit, die Herzen, die sich ausserhalb jeglicher Kontrolle entflammen. Und es ist klar, dass die Blitze der Repression die Anarchisten, die dazu beitragen wollen, durchaus nicht verschonen, doch dies zeugt in keinster Weise davon, wie „gefährlich“ wir sind. Das einzige, was dies vielleicht sagen will, ist, wie gefährlich es wäre, wenn sich unsere Ideen und Praktiken unter den Ausgeschlossenen und Ausgebeuteten verbreiten würden.

Es verwundert uns also noch immer, wie sehr die Idee einer Art Schatten, die Anarchisten von heute nicht mehr zu verlocken scheint, zumindest nicht jene, die weder resignieren, noch in einer Wartehaltung verbleiben oder bis in alle Ewigkeiten Massenorganisationen aufbauen wollen. Einst waren wir stolz darauf: all unser mögliches zu tun, um den Sumpf der sozialen Konfliktualität auszuweiten und ihn somit für die Kräfte der Repression und der Rekuperation unzugänglich zu machen. Wir waren weder auf der Suche nach den Scheinwerfern der Öffentlichkeit, noch nach dem Ruhm der Krieger; im Schatten, im verborgenen Teil der Gesellschaft leisteten wir unseren eigenen Beitrag zur Störung der Normalität, zur anonymen Zerstörung der Strukturen der Kontrolle und der Repression, zur „Befreiung“ durch die Sabotierung des Raumes und der Zeit, um dafür zu sorgen, dass die sozialen Revolten ihrem Lauf folgen können. Und mit Stolz verbreiteten wir diese Ideen, auf autonome Weise, ohne uns auf Medienechos zu beziehen, fern vom politischen Spektakel, und sei es jenes der „Opposition“. Eine Agitation, die nicht danach verlangte, gefilmt zu werden, anerkannt zu werden, sondern vor allem zur Rebellion ermutigen und, in dieser geteilten Revolte, Verbindungen mit anderen Rebellen knüpfen wollte.

Heute scheinen viele Gefährten die einfache Lösung einer Identität der Verbreitung der Ideen und der Revolte vorzuziehen und reduzieren somit beispielsweise die Affinitätsbeziehungen auf den Beitritt zu irgendeiner Sache. Offensichtlich ist es einfacher, vorgefertigte Meinungen aus den Regalen des militanten Supermarktes zu nehmen und zu konsumieren, als einen eigenen Weg des Kampfes zu entwickeln, der mit all dem bricht. Offensichtlich ist es einfacher, sich durch ein geteiltes Sigel eine Illusion von Stärke zu geben, als zu verstehen, dass sich die „Stärke“ der Subversion im Ausmass und in den Art und Weisen verbirgt, auf die es ihr gelingt, den sozialen Körper mit befreienden Ideen und Praktiken anzustecken. Die Identität und die „Bildung einer Front“ bieten vielleicht die süsse Illusion, etwas zu bedeuten, vor allem im Spektakel der Kommunikationstechnologien, zerstören aber nicht das geringste Hindernis. Schlimmer noch, es weist alle Symptome einer wenig anarchistischen Sicht auf den Kampf und die Revolution auf, einer Sicht, die glaubt, gegenüber dem Koloss der Macht, auf symetrische Weise, einen illusorischen anarchistischen Koloss ins Feld führen zu können. Die unweigerliche Konsequenz davon sind ein sich schliesslich auf eine ziemlich uninteressante Nabelschau verengender Horizont, hier und da einige Schläge über den Rücken und die Konstruktion eines ausschliessenden, autoreferenziellen Milieues.

Es würde uns nicht erstaunen, wenn diese Manie die autonome anarchistische Bewegung noch mehr lähmen würde, in dem Moment, in dem es darum geht, den immer häufigeren, spontanen und zerstörerischen Revolten unseren Beitrag zu geben. Eingeschlossen in der Selbstpromotion und der Selbstreferenz, mit einer auf die Publizierung von Bekennerschreiben im Internet reduzierten Kommunikation, scheint es nicht, dass die Anarchisten zu grossen Dingern fähig sein werden, wenn die Unruhen gleich neben uns ausbrechen (abgesehen von den üblichen paar Explosionen und Brandstiftungen, oft gegen Ziele, die die Revoltierenden bereits selbst fleissig am zerstören waren). Je mehr wir uns der Möglichkeit eines Aufstands zu nähern scheinen, je greifbarer diese Möglichkeiten werden, desto mehr scheinen sich die Anarchisten anscheinend nicht mehr für den Aufstand interessieren zu wollen. Und dies gilt ebenso sehr für jene, die sich darin verlieren, die der Rolle einer sterbenden Linken wiederaufzugreifen, wie für jene, die dabei sind, sich in irgendeiner Ideologie des bewaffneten Kampfes einzuschliessen. Aber lasst uns kurz klarstellen, was wir darunter verstehen, wenn wir von aufständischen Perspektiven und von Aufstand sprechen. Es geht dabei gewiss nicht um eine blosse Multiplizierung der Anzahl Angriffe, und noch weniger, wenn sie das exklusive Terrain der Anarchisten mit ihren Fronten zu werden (wollen) scheinen. Viel mehr als ein einmaliges Duell mit dem Staat, ist der Aufstand der vielfache Bruch mit der Zeit, mit dem Raum und mit den Rollen der Herrschaft, ein gezwungenermassen gewaltsamer Bruch, der zum Beginn einer Subversion der sozialen Verhältnisse werden könnte. In diesem Sinne ist der Aufstand vielmehr eine soziale Entfesselung, die die schlichte Tatsache der Generalisierung der Revolte und der Unruhen übersteigt und in seiner Negation bereits den Beginn einer neuen Welt trägt, oder diesen zumindest in sich tragen müsste. Er ist vor allem die Präsenz jener utopischen Spannung, die fähig ist, nach dem grossen Zerstörungsfest einige Abstützpunkte gegen die Rückkehr zur Normalität und die Wiedereinrichtung der sozialen Rollen zu bieten. Es sei also klargestellt, dass der Aufstand nicht nur eine Sache der Anarchisten ist, auch wenn unser Beitrag, unsere Vorbereitung, unsere aufständischen Perspektiven ohne den geringsten Zweifel wichtig sind und in Zukunft vielleicht sogar entscheidend werden könnten, um die Entfesselung der Negation in eine befreiende Richtung zu stossen. In einer Welt, die täglich instabiler wird, müssten diese schwierigen Fragen wieder in Vordergrund treten, a priori auf sie zu verzichten, um sich in irgendeinem identitären Ghetto einzuschliessen, während man die Illusion kultiviert, „Stärke“ durch kollektive Sigel und die „Vereinigung“ der zum Angriff bereiten Anarchisten zu entwickeln, wird hoffnungslos zur Negation jeglicher aufständischen Perspektive.

Auf die Welt der Fronten und der Sigel zurückkommend, könnte man zum Beispiel die obligatorischen Referenzen auf die gefangengenommenen Gefährten als ein Vorzeichen für die bevorstehende Einschliessung in einem autoreferenziellen Rahmen verstehen. Es scheint, dass Gefährten, die einmal vom Staat verhaftet wurden, nicht mehr Gefährten wie wir alle sind, sondern vor allem „verhaftete“ Gefährten. Die Positionen in dieser bereits schwierigen und schmerzhaften Debatte sind dermassen festgefahren, dass nur noch zwei Optionen übrigbleiben: entweder die absolute Verherrlichung unserer gefangengenommenen Gefährten, oder der absolute Widerwille, der schnell in der Verweigerung endet, der Solidarität noch Körper und Geist zu geben. Hat es noch einen Sinn, zu wiederholen, dass unsere im Knast sitzenden Gefährten nicht über oder unter anderen Gefährten stehen, sondern schlicht und einfach zwischen ihnen? Ist es nicht beängstigend, zu sehen, wie trotz der zahlreichen Kämpfe gegen das Gefängnis, die aktuelle Wendung wieder den Diskurs über die „politischen Gefangenen“ aufgreift, während eine breitere Kampfperspektive gegen das Gefängnis, die Justiz, etc. verlassen wird? Schlussendlich laufen wir Gefahr, das zu vollenden, was der Staat zu erreichen versuchte, als er unsere Gefährten einsperrte: indem wir aus ihnen zentrale, abstrakte und zu verherrlichende Referenzpunkte machen, werden sie von der Gesamtheit des sozialen Krieges isoliert. Anstatt nach Wegen zu suchen, um jenseits der Mauern Verbindungen von Solidarität, Affinität und Komplizenschaft zu fördern, indem alles radikal ins Innere des sozialen Krieges gestellt wird, beschränkt sich die Solidarität darauf, am Ende eines Bekennerschreibens Namen zu zitieren. Dies generiert ausserdem einen ziemlichen Teufelskreis ohne allzu viele Perspektiven, eine Überbietung von an andere „gewidmeten“ Angriffen, anstatt die Stärke in sich selbst und in der Wahl des Wann, Wie und Wieso des Intervenierens in die gegebenen Bedingungen zu finden.

Doch die Logik des bewaffneten Kämpfertums ist unversöhnlich. Einmal in Gang gesetzt, scheint es nur noch wenig daran zu rütteln zu geben. Alle, die ihm nicht beitreten oder ihn nicht verteidigen werden mit Gefährten gleichgestellt, die weder handeln noch angreifen wollen, die die Revolte den Berechnungen und den Massen unterordnen, die nur warten wollen und den Impuls ablehnen, hier und jetzt das Pulverfass zu entzünden. In dem verzerrenden Spiegel wird die Zurückweisung der Ideologie des bewaffneten Kampfes zur Zurückweisung des bewaffneten Kampfes an sich. Selbstverständlich gibt es nichts so falsches wie das, doch es gibt keine Ohren mehr, die das hören wollen, der Raum zur Diskussion ist verschlossen. Alles reduziert sich darauf, in pro und kontra Blöcken zu denken, und der Weg, der unserer Meinung nach am interessantesten ist, jener der Entwicklung von aufständischen Projektualitäten, wird endgültig beiseite geschoben. Zur grossen Freude der formellen Libertären und der Pseudo-Radikalen sowie der repressiven Kräfte, die nichts anderes als die Trockenlegung dieses Sumpfes wollen.

Denn wer will schon heute noch über Projektualitäten diskutieren, wenn der einzige Rythmus, der dem Kampf gegeben wird, die Summe der Angriffe wurde, zu denen sich auf dem Internet bekannnt wurde? Wer ist noch auf der Suche nach einer Perspektive, die mehr will als das blosse Erwidern einiger Schläge? Und, um Missverständnisse zu vermeiden, sei hier widerholt, dass es notwendig ist, hier und jetzt zuzuschlagen, und dies mit allen Mitteln, die wir für angebracht und gelegen halten. Doch die Herausforderung, eine Projektualität zu entwickeln, die versuchen will, aufständische Situationen zu entfesseln, auszuweiten oder zu vertiefen, fordert viel mehr als die blosse Fähigkeit, Schläge auszuteilen. Es fordert die Entwicklung eigener Ideen und nicht die Wiederholung von dem, was andere sagten; die Kraft, eine wirkliche Autonomie in Sachen Kampferfahrungen und Fähigkeiten zu entwickeln; die langwierige und schwierige Suche nach Affinitäten und nach der Vertiefung der gegenseitigen Kenntnis; eine gewisse Analyse der sozialen Verhältnisse, in denen wir uns bewegen; den Mut, Hypothesen für den sozialen Krieg zu formulieren, um nicht mehr hinter den Fakten herzurennen, oder hinter uns selbst. Es fordert schliesslich nicht nur die Fähigkeit, gewisse Methoden anwenden zu können, sondern vor allem Ideen über das Wie, Wo, Wann und Wieso sie zu benutzen, und auch dies noch in einer notwendigen Verflechtung mit einer ganzen Palette von anderen Methoden. Ansonsten werden nicht mehr Anarchisten, sondern bloss eine Reihe von ziemlich tristen und beschränkten Rollen übrig bleiben: Propagandisten, Besetzer, bewaffnete Kämpfer, Enteigner, Schreiber, Randalierer, Unruhestifter, und so weiter. Nichts wäre schmerzlicher, als uns so sehr entwaffnet vor der Möglichkeit des bevorstehenden sozialen Gewitters wiederzufinden, dass jeder nur über eine einzige Spezialität verfügt. Nichts wäre unangenehmer als in explosiven sozialen Umständen feststellen zu müssen, dass sich die Anarchisten zu sehr mit ihrem kleinen Garten beschäftigen, um fähig zu sein, wirklich zur Explosion beizutragen. Nichts hätte mehr den bitteren Geschmack von versäumten Gelegenheiten, als wenn wir durch den exklusiven Fokus auf das identitäre Ghetto davon absehen würden, unsere Komplizen im sozialen Sturm zu entdecken, durch geteilte Ideen und Praktiken mit anderen Rebellen Verbindungen zu schmieden, mit allen Formen der mediatisierten Kommunikation und der Repräsentation zu brechen, um den Raum für eine wirkliche Gegenseitigkeit zu öffnen, die sich allergisch gegenüber jeglicher Macht und Herrschaft verhält.

Doch wie immer weigern wir uns, zu verzweifeln. Wir wissen, dass noch immer viele Gefährten in einem Raum und einer Zeit, in denen jegliches politische Spektakel konsequent verbannt wird, auf der Suche nach Möglichkeiten sind, um den Feind zu treffen und durch die Verbreitung von anarchistischen Ideen und Kampfvorschlägen Verbindungen mit anderen Rebellen aufzubauen. Es ist wahrscheinlich der schwierigste Weg, denn es wird nie eine Anerkennung für ihn geben. Weder von Seiten des Feindes, noch von Seiten der Massen und aller Wahrscheinlichkeit nach auch nicht von Seiten anderer Gefährten und Revolutionären. Doch wir tragen in uns eine Geschichte, eine Geschichte, die uns mit all den Anarchisten verbindet, die hartnäckig dabei bleiben, sich zu weigern, sich einbinden zu lassen, sei es in die „offizielle“ anarchistische Bewegung oder in ihren Reflex des bewaffneten Kämpfertums. Mit jenen, die dabei bleiben, sich zu weigern, die Verbreitung unserer Ideen von der Art und Weise loszulösen, auf die sie verbreitet werden, und auf diese Weise versuchen, jegliche politische Mediation zu verbannen, einschliesslich dem Bekennerschreiben. Mit jenen, die wenig Interesse daran haben, zu wissen, wer dies oder das getan hat, sondern es in die eigene Revolte, in die eigene Projektualität mitaufnehmen, die sich in der einzigen Verschwörung entfaltet, die wir wollen: jene der rebellischen Individualitäten für die Subversion des Bestehenden.

 

20. November 2011

 

Sobre la carta a la galaxia anarquista

Nota de R. Publicamos a continuación la “carta a la galaxia anarquista”, con una nota de Culmine, tal como apareció en las páginas de Culmine y Viva la Anarquía. Sólo queremos agregar, por ahora, un par de palabras sobre este dichoso texto. En el se condena explícitamente la carta bomba, llamando “despreciable” a esta forma de ataque. Y esto justo en momentos, como muy bien nos señalaran unos compañeros, en que se desarrollan los juicios contra los presos de la CCF en Grecia, varios de ellos acusados del envío de cartas y paquetes explosivos. ¿Casualidad? ¡Para nada! Los “profesionales de la insurrección” que han escrito esta misiva, le están presentando su certificado de buena conducta al Estado, y en los hechos, se unen a la condena contra nuestros compañeros, que han decretado las iglesias “anarquistas” oficiales. Para terminar, consideramos el hecho de que en esta carta se hable en general del tema de los prisioneros y de la lucha contra la cárcel, sin decir una sola palabra de solidaridad con los compañeros que HOY enfrentan juicios en Grecia y en Chile, como una actitud profundamente despreciable.

 

Carta a la galaxia anarquista – Un debate desde el viejo continente, mas nota de Culmine

fuente: vivalaanarquia.espivblogs.net

Nota de Culmine: No se puede negar, hemos sentido la falta de una charla sobre el insurreccionalismo y sobre la proyectualidad anarquista.

Hay demasiados elementos sobre los que deseamos hablar, y sin duda lo haremos en otros contextos. Sin embargo, la náusea causada por los profesores del insurreccionalismo nos impide considerar cualquier cosa.

Haremos todo a su momento. Mientras tanto, vamos a seguir publicando las reivindicaciones con una gran cantidad de siglas, acronimos, nombres de compañerxs presxs, caidos en combate y fugitivos. Nadie está obligado a leer lo que publicamos!

Algo está pasando y no hay tiempo ni ganas de escuchar sus aburridas lecciones sobre la insurrección que vendrá!

Estamos totalmente de acuerdo con lo que escribieron:

el espacio para la discusión está cerrado!

¡Viva la Internacional Negra!

Honor a lxs compañerxs caídxs en combate!

Culmine, en noviembre del 2011

* * *

Sin haber sido invitados, nos estamos obligando a un debate que no es nuestro. Y que nunca será, como se establece en un terreno que es estéril para el desarrollo de perspectivas insurreccionales y de las ideas anarquistas y las actividades que se centran en el desarrollo. Por lo tanto, ustedes pueden preguntar, ¿por qué escribir una carta? Porque nada es más cercano al corazón de la revuelta libertaria y destructivo, que la lucha por la subversión de lo existente, porque nunca dejaremos de reconocer a nosotros mismos en todos los compañeros que deciden atacar las estructuras y la gente del poder en un deseo de libertad; porque hay algunas cosas que apreciamos más de la voluntad individual, la lucha por la coherencia y la valentía de encender la mecha, por encima de todo. No creo que se escriba esta premisa, en un intento de complacer, es sincero, como es nuestra preocupación por la amputación voluntaria del dominio de la lucha anarquista.

Seamos claros:
más que nunca hay una necesidad de la intervención destructiva de los anarquistas, más que nunca es el momento de intensificar, a la búsqueda de posibilidades e hipótesis que permite la extensión de la revuelta y la insurrección y de esta manera la velocidad de vuelco de este mundo. Pero esta necesidad y urgencia no nos exime de la obligación de pensar qué, dónde, cómo y por qué.

Vamos a ser directos:
por qué razones son anarquistas (que no tienen ninguna dificultad en comprender por qué los autoritarios han de serlo) de forma sistemática reivindicación sus actos y la firma con las siglas que se han convertido en mundialmente famoso?¿Qué los lleva a asociar este camino con una forma extrema de la coherencia entre pensamiento y acción, entre teoría y práctica, cuando en realidad se trata simplemente de la supresión ilusoria de una tensión permanente que debe existir entre ellos y que es sin lugar a dudas la fuerza motriz detrás el movimiento anarquista?
Se corre el riesgo manía difusión proyectando su sombra sobre todos los actos de rebelión. No sólo las acciones de los anarquistas que alegremente pasan por el trago amargo y decepcionante siempre de la demanda, sino también, y quizás sobre todo, la acción del panorama más general de la rebelión y la conflictividad social. Tal vez esa es una de las “razones” que nos ha empujado a escribir este texto. Cansado de vivir y encontrar el campo anarquista de ataque, el sabotaje y la expropiación de más y más asimilados a una sigla y, como tal representación, política, cansado de ver el estrechamiento de horizonte en dos opciones falsamente opuestas: o bien “respetable” el anarquismo, corriendo detrás de las asambleas , los movimientos sociales y sindicatos de base del comercio, o “malo” el anarquismo, se ruega a los sellos de su contribución a la guerra social con algunas siglas – y si no lo haces, alguien más lo hará por usted.
Debido a que también optan a los ataques. También sabotear la maquinaria del capital y la autoridad. También optar por no aceptar un puesto de la mendicidad y no poner fuera de la expropiación forzosa hasta mañana. Pero sí creemos que nuestras actividades son simplemente parte de una conflictividad social más amplio, una conflictividad que no necesita reclamos y las siglas. Creemos que sólo cuando las acciones son anónimas pueden realmente ser apropiados para todo el mundo. Creemos que colocando un sello en un ataque se está moviendo el ataque de lo social a lo político, en el campo de la representación, delegación, actores y espectadores. Y, como se ha dicho antes en este tipo de debate, no es suficiente para proclamar la negativa de la política: su negativa implica la coherencia entre medios y fines, y la demanda es un instrumento político a la igual que la tarjeta de membresía, el programa, la declaración de principios.
Más allá de eso, hay una cierta confusión que queremos exponer, porque no podemos seguir y quedarnos y ver a un contenido que es cada vez más, y está dando a conceptos tales como la informalidad. La elección de un movimiento anarquista autónomo informal implica el rechazo de las estructuras fijas, de asociaciones, federaciones de centralizar y unificar, y por lo tanto, también se fijan las firmas recurrentes, si no todas las firmas. Se trata de la negativa de la elaboración de los programas, el destierro de todos los medios políticos, y por lo tanto también de las reclamaciones de programación que dicen estar en la posición de delinear las campañas.
Es el rechazo de toda la centralización, y así también de todas las estructuras paraguas, no importa si se declara verbalmente “informal” o formal. En un sentido positivo, para nosotros la informalidad representa un archipiélago ilimitado e indefinido de grupos autónomos y las personas que están forjando vínculos basados en la afinidad y el conocimiento mutuo y que deciden sobre esa base, la realización de proyectos comunes. Es la opción para los pequeños, la afinidad basada en los círculos que hacen su propia autonomía, perspectivas y métodos de acción de base para la creación de vínculos con los demás. La organización informal no tiene nada que ver ni con las federaciones o las siglas. Y lo que llevó a algunos compañeros a hablar no sólo sobre la informalidad, sino de “insurreccionalismo” también? Con el riesgo de devaluar el amplio panorama de ideas, análisis, hipótesis y propuestas, se podría decir que “insurreccionalismo” contiene los métodos y perspectivas que, de un anarquismo sin compromiso, queremos contribuir a “situaciones insurreccionales. El arsenal de los métodos anarquistas de esta contribución es enorme. Por otra parte, el uso de métodos (agitación, ataques, propuestas de organización, etc) en sí mismo significa casi nada: sólo en un pensamiento-hacia fuera y la evolución de ‘proyectualidad’ que adquieren significado en la lucha. El incendio de un edificio del Estado es sin lugar a dudas siempre es bueno, pero no es necesariamente inscrito en una perspectiva insurreccional “como tal”. Y esto cuenta mucho menos para la elección, por ejemplo, con el objetivo de ataques especialmente contra en lugar central, los objetivos espectaculares, acompañados por las confesiones de fe. No es casualidad que en otros momentos de projectualities insurreccional, el énfasis fue puesto sobre todo en modestas, las acciones reproducible y anónima de ataques en comparación con las estructuras más centralizadas y la gente de poder, o en la necesidad de sabotaje certero de las infraestructuras que no necesitan de ecos en los medios de comunicación con el fin de alcanzar sus metas, por ejemplo, la inmovilización de transporte, datos, y los suministros de energía.

Parece que no son todo lo que muchos puntos de vista detrás de la manía actual de reclamaciones, o por lo menos, tenemos dificultades para descubrirlos. De hecho, y esto no quiere decir que queremos subestimar la rebelión sincera y valiente de los compañeros, parece como si no es ante todo una lucha por el reconocimiento. Un reconocimiento por parte del enemigo, que se apresuran a completar su lista de organizaciones terroristas, que significa el principio del fin: el enemigo comienza a trabajar para aislar una parte de la conflictividad de la conflictividad en general, un aislamiento que no sólo es el precursor de la represión (y en realidad no importa, la represión siempre está ahí – no vamos a llorar por el hecho de que las actividades anarquistas siempre están siendo seguidos por los ojos del Argos, y procesado por lo tanto), pero sobre todo, y que el más importante, es el medio más eficaz para luchar contra todas las posibles infecciones.

En la situación actual del cuerpo social, que está enferma y en deterioro, lo mejor es por el poder un cuchillo bien clara, y definida que trata de apuñalar a un pedazo de él, mientras que los peores por el poder es un virus que los riesgos de daño a todo el cuerpo en una forma intangible e incontrolable por lo tanto. ¿O estamos equivocados, y es todo más información sobre el reconocimiento de los explotados y los excluidos? Pero, ¿estamos los anarquistas no contra todas las formas de delegación, de un magnífico ejemplo que a menudo legitimar la renuncia? Sin duda alguna, nuestras prácticas puede ser contagiosa, y nuestras ideas aún más, pero sólo a condición de que traer de vuelta la responsabilidad de actuar de cada individuo por separado, cuando se pregunta la renuncia como una elección individual.
Para inflamar los corazones, sin duda, pero cuando esto no tiene el oxígeno de su propia convicción, el fuego se extingue rápidamente y en el mejor de los casos, simplemente se hará un seguimiento por parte de algunos aplausos de los mártires próximos. Y aun así, sería realmente muy irónico que el principal de oposición política, los anarquistas, fueron a tomar el relevo de la representación y, en los pasos de sus predecesores autoritarios, la conflictividad social separada de la subversión inmediata de todos los roles sociales, y hacer esto en momentos en que la mediación política (partidos políticos, sindicatos, reformismo) poco a poco va quedando obsoleta y anticuada. Y no hace ninguna diferencia si quieren hacer esto a la cabeza de los movimientos sociales, hablando las grandes verdades en las asambleas populares o por medio de un determinado grupo armado.
O es todo apunta a lograr “coherencia”? Por desgracia, los anarquistas que el intercambio de la búsqueda de la coherencia de los acuerdos tácticos, las alianzas y separaciones nauseabundo estratégica entre medios y fines han existido siempre. La coherencia anarquista es sin lugar a dudas también se encuentran en la negación de todo esto. Pero esto no quiere decir que, por ejemplo, una cierta condición de “clandestinidad” sería más coherente. Cuando la clandestinidad no es visto como una necesidad (ya sea porque la represión nos está persiguiendo o porque es necesario una acción específica), sino como una especie de pinnacle de la actividad revolucionaria, no hay mucho más de izquierda de la infame un legalismo. Con el fin de imaginar esto, podría ser suficiente para compararla con la situación social en Europa: no es que miles de personas están viviendo en una realidad “clandestina” situación (personas sin papeles), que se hace de forma automática y objetiva, una amenaza al legalismo y coronas como “sujetos revolucionarios”. ¿Por qué habría de ser diferente para los anarquistas que viven en condiciones de clandestinidad?
O podría ser todo sobre asustar a los enemigos? Un elemento recurrente en las demandas es que al parecer hay anarquistas que creen que pueden asustar a poder expresar las amenazas, la publicación de fotografías de las armas o la explosión de bombas pequeñas (y no hablemos de la despreciable práctica de enviar cartas-bomba). En comparación con la masacre diaria, organizado por el poder que parece un poco ingenuo, sobre todo para aquellos que no tienen ilusiones de izquierda sobre los gobernantes que son más sensibles, el capitalismo con rostro humano, o las relaciones más honestas dentro del sistema. Si el poder, a pesar de su arrogancia, se que temer nada de lo que sería la propagación de la revuelta, la siembra de la desobediencia, la ignición no controlada de los corazones. Y por supuesto, el relámpago de la represión no perdonará a los anarquistas que quieren contribuir a ello, pero eso no quiere demostrar lo “peligroso” que son en modo alguno, que tal vez sólo habla de lo peligroso que sería si nuestras ideas y prácticas se extendiera entre los excluidos y explotados.

Estamos continuamente sorprendido por lo poco que la idea de algún tipo de sombra es capaz de complacer a los anarquistas contemporáneos, los que no quieren resignarse, esperar o construir organizaciones de masas.

Solíamos estar orgullosos de ello:
nos pondría a todos en todos para hacer el pantano de la conflictividad social, ampliar y para hacer imposible que las fuerzas de la represión y la recuperación de penetrar. No fuimos a buscar el centro de atención, o por la gloria del guerrero: en la sombra, en el lado oscuro de la sociedad a la que contribuyó a la alteración de la normalidad, a la destrucción de las estructuras anónimas de control y represión, a la ‘ liberación “de tiempo y espacio a través del sabotaje a fin de que la revuelta social podría continuar. Y se utilizó para difundir nuestras ideas con orgullo, de forma autónoma, sin hacer uso de los ecos de los medios de comunicación, lejos de la política espectáculo como la ‘oposición’ uno. Una agitación que no estaba tratando de ser filmado, reconoció, pero que trató de rebelión de combustible en todas partes y establecer vínculos con otros rebeldes en la revuelta compartida.

Parece que hoy más que algunos compañeros han optado por la solución fácil de la identidad de la circulación de ideas y la rebelión, y que de esta manera reducir las relaciones de afinidad con algo de unión. Por supuesto que es más fácil recoger algunos productos terminados de los estantes del mercado de militantes de opiniones y consumir, en vez de desarrollar un seguimiento adecuado lucha que hace una ruptura con ella. Por supuesto que es más fácil darse a sí mismo la ilusión de la fuerza mediante el uso de una sigla común de enfrentar el hecho de que la “fuerza” de la subversión se encuentra en el grado y en la forma en que pueden atacar el cuerpo social con prácticas liberadoras e ideas. ”La formación de un frente de identidad y podría ofrecer la dulce ilusión de tener sentido, sobre todo en el espectáculo de la tecnología de la comunicación, pero no borra todos los obstáculos del camino. Aún más, se muestran todos los síntomas de la enfermedad de una concepción no tan-anarquista de lucha y la revolución, que cree en la posibilidad de plantear un mastodonte anarquista ilusión antes de que el mastodonte de la energía en forma simétrica. La consecuencia inmediata es la cada vez más el estrechamiento del horizonte a una introspección no muy interesantes, algunas palmaditas en la espalda, aquí y allá y la construcción de un marco de exclusiva auto-referencia.
No nos extrañaría que esta manía se para paralizar el movimiento anarquista, incluso con respecto a nuestra contribución a las revueltas cada vez más frecuente, espontáneo y destructivo. De ser encerrado en la auto-promoción y la auto-referencia, con la comunicación reducida a las demandas de publicación en Internet, no parece que los anarquistas será capaz de hacer muchas cosas (aparte de las explosiones e incendios obligatorio, a menudo en contra de los objetivos que el personas en la revuelta ya están muy destruyendo a sí mismos) cuando la situación se está explotando en su vecindario. Parece que cuanto más nos parece que llegar a la posibilidad de insurrecciones, la más tangible de estas posibilidades se están convirtiendo, a los anarquistas menos quiere estar ocupado con él. Y esto tiene el mismo valor para aquellos que están cerrando en sí mismos una ideología de la lucha armada. Pero ¿de qué estamos hablando cuando hablamos de perspectivas insurreccionales? Definitivamente no es sólo de una multiplicidad de ataques, menos aún cuando éstos parecen tender hacia el terreno exclusivo de los anarquistas con sus frentes. Mucho más que un duelo singular armado con el Estado, la insurrección es la ruptura de múltiples con el tiempo, el espacio y los roles de dominación, una ruptura necesariamente violenta que puede significar el comienzo de la subversion de las relaciones sociales. En ese sentido, la insurrección es más bien un desencatamiento social, que va más allá de una generalización de la revuelta o disturbios, pero que ya lleva en su negación al principio de un nuevo mundo, o al menos se debe hacer. Es precisamente la presencia de esa tensión utópica que ofrece algo de agarre en contra de la vuelta a la normalidad y la recuperación de los roles sociales después de la gran fiesta de la destrucción. Por lo tanto, puede ser evidente que la insurrección no es una cuestión puramente anarquista, a pesar de nuestra contribución al mismo, nuestra preparación hacia ella, nuestros puntos de vista insurreccional, podría en el tiempo futuro fuera de toda duda importante y decisivo tal vez para empujar el desencadenamiento de la negación hacia una dirección liberadora . Abandonar de antemano estos temas difíciles – que deberían estar ganando importancia en un mundo que es cada vez más inestable y más – por encerrarnos en un gueto basado en la identidad y el aprecio de la ilusión del desarrollo “fuerza” de las firmas común y la “unificación” de anarquistas que se preparan para atacar, se convierte inevitablemente en la negación de todas las perspectivas insurreccionales.
Para volver al mundo de los frentes y las siglas, podríamos por ejemplo hablar de la referencia obligada a compañeros presos como una señal clara de los mismos dentro de un marco de restricción de la exclusiva auto-referencia. Parece que una vez encerrado por el Estado, estos compañeros no son compañeros ya que estamos, pero son precisamente ‘encarcelados’ camaradas. De esta manera, las posiciones en los debates que ya es difícil y doloroso se fijan de una manera que sólo puede tener dos salidas: o la glorificación absoluta de nuestros compañeros presos, o el rechazo absoluto, que puede rápidamente convertirse en una renuncia de desarrollo y pone en práctica solidaridad.
¿Sigue teniendo sentido seguir repitiendo que nuestros compañeros presos no son colocados por encima o por debajo de otros compañeros, pero son simplemente entre ellos? ¿No es notable que, a pesar de las muchas luchas contra las cárceles, la corriente actual es de nuevo saliendo con “políticos” los presos, el abandono de una perspectiva más general de lucha contra la prisión, la justicia, …? De este modo, corremos el riesgo de completar lo que el Estado ya estaba tratando de realizar en primer lugar mediante el bloqueo de nuestros compañeros hasta: convirtiéndolas en puntos de referencia abstracto, idolatrado y central, que se les aísla de la guerra social en su conjunto. En lugar de buscar maneras de mantener los lazos de solidaridad, afinidad y complicidad a través de las paredes, colocando todo en el medio de la guerra social, la solidaridad se está reduciendo en la cita de nombres al final de una reclamación. Además de eso, se trata de generar un movimiento desagradable circular sin perspectiva mucho más, un mayor nivel de ataques que son “dedicadas” a los demás, en lugar de tomar la fuerza de nosotros mismos y de la elección de cuándo, cómo y por qué intervenir en determinadas circunstancias .
Pero la lógica de la lucha armada-ismo es imparable. Una vez puesto en marcha, que por desgracia se hace muy difícil de contrarrestar. Todo el mundo que no se une y asume su defensa frente a los compañeros que no quieren actuar, o ataque, que se someten a la revuelta de los cálculos y las masas, que sólo quiere esperar y se niegan la necesidad de encender la mecha aquí y ahora . En el espejo deformado, el rechazo de la ideología de la lucha armada es igual a la negativa de la lucha armada en sí. Por supuesto, esto no es cierto, pero para quien quiera escuchar que no hay espacio para la discusión queda abierta. Todo se reduce a un pensamiento en bloques, en favor y en contra, y el camino que nos parece más interesante, el desarrollo de projectualities insurreccional está desapareciendo en el fondo. Para el aplauso de los defensores de las libertades formales y la pseudo-radicales, así como las fuerzas represivas, que no desean nada más que el agotamiento de este pantano.
Debido a que todavía quiere discutir proyectualidad hoy, cuando el único ritmo que la lucha parece haber es la suma de los ataques reclamados en la internet? Que todavía está en busca de una perspectiva que quiere hacer algo más que la huelga sea un poco? Hay, por cierto, no hay duda de que: llama la atención es necesaria, aquí y ahora, y con todos los medios que creemos adecuada y oportuna. Pero el reto de la elaboración de un proyectualidad, cuyo objetivo es el intento de desencadenar, ampliación o profundización de situaciones insurreccionales, exige un poco más de la capacidad de la huelga. Que exige el desarrollo de ideas propias y no la repetición de palabras de otras personas, la fuerza para desarrollar la autonomía real en términos de lucha y capacidad, la búsqueda lenta y difícil para las afinidades y la profundización del conocimiento mutuo, un cierto análisis de las circunstancias sociales en el que actuamos, el valor de elaborar hipótesis de la guerra social con el fin de dejar de correr detrás de los hechos o de nosotros mismos.
En pocas palabras: no sólo la demanda de la capacidad de utilizar ciertos métodos, pero sobre todo las ideas de cómo, dónde, cuándo y por qué usarlos, y luego en combinación con un espectro entero de otros métodos. De lo contrario no habrá anarquistas de izquierda, sólo un espectro de funciones fijas: propagandistas, los ocupantes ilegales, luchadores armados, expropiadores, los escritores, los interruptores de la ventana, los manifestantes, etc No habría nada más doloroso que nos encontramos tan desarmados frente a la inminente tormenta social que para cada uno de nosotros sólo queda especialidad. No habría nada peor en la explosiva situación social de tener que en cuenta que los anarquistas están demasiado involucrados en su propio patio trasero para poder contribuir realmente a la explosión. Que daría el gusto más amargo de las oportunidades perdidas cuando, al centrarse exclusivamente en el gueto de identidad, abandonaría el descubrimiento de los cómplices dentro de la tormenta social, la forja de relaciones de ideas y prácticas en común con otros rebeldes, rompiendo con todas las formas de la comunicación mediada y la representación y de esta manera abrir un espacio de verdadera reciprocidad que es alérgica a todo el poder y la dominación.
Pero como siempre nos negamos a la desesperación. Somos conscientes de que muchos compañeros están en busca de posibilidades para atacar al enemigo y establecer vínculos con otros rebeldes a través de la difusión de las ideas anarquistas y las propuestas de lucha, en un tiempo y espacio que abandona todo espectáculo político. Es probablemente el camino más difícil, porque nunca será recompensado. No por el enemigo, no por las masas y la mayoría probablemente no por otros compañeros y revolucionarios. Pero tenemos una historia dentro de nosotros, una historia que nos une a todos los anarquistas y los que obstinadamente se siguen negando a ser cerrados, ya sea dentro del movimiento “oficial” anarquista, o en la reflexión de lucha armada-ista de la misma. Los que siguen negándose a difundir las ideas por separado de las formas en que podemos difundirlas, tratando así de todos los exiliados políticos de mediación, incluyendo la demanda. Los que no les importa mucho quién hizo esto o aquello, pero no puede conectarlo a su propia rebelión, sus proyectualidad propia que se expande en la única conspiración que queremos: el de las individualidades rebeldes de la subversión de lo existente.
20 de noviembre 2011

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Extraido de Actforfreedomnow! Y Traducido por Nuestravidaloca

VLA: Nos tomamos el atrevimiento de cambiar algunas palabras del texto original de la traducción para mejor entendimiento, sin quitarle sentido a las palabras. Texto Original en frances e ingles en culmine

 

(es-it) Rojoscuro – Sobre la “carta a la galaxia anarquista”

 

 

 

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