Processo Diaz, confermate le condanne per i poliziotti

La Cassazione ha confermato le condanne per i vertici della polizia coinvolti nel pestaggio nella scuola Diaz. Prescritti i reati di lesione per gli agenti.
Con una lentezza esasperante Giuliana Ferrua, presidente della quinta sezione, legge il dispositivo, sciorina articoli e nomi ma la parola più frequente è “rigetta”. La sentenza della Diaz ha superato la prova della Cassazione, 25 tra funzionari e agenti che comandarono o presero parte alla mattanza nella scuola genovese sono colpevoli per gli abusi e le menzogne che si consumarono attorno al gigantesco pestaggio. In particolare quelli che furono condannati anche all’interdizione dai pubblici uffici dovranno smettere la divisa. «Non faranno un giorno di galera», dice Simonetta Crisci, una dei legali di parte civile, uscendo dall’aula magna del Palazzaccio, «ma perderanno il posto».

Perché è vero che, seppure la sentenza abbia dovuto prendere atto delle prescrizioni e dell’indulto, solo un’acrobazia giuridica spregiudicata può salvare la poltrona di Francesco Gratteri (ora capo del dipartimento centrale anticrimine), di Giovanni Luperi (ora ai servizi segreti), del capo dello Sco, Gilberto Caldarozzi o anche di Vincenzo Canterini, capo della celere di Roma. «Tutti generali scesi in campo con casco e manganello a fianco della truppa», come disse il pm Enrico Zucca aprendo la requisitoria quattro anni fa.

La sua ostinazione e quella del suo collega Francesco Cardona Albini sono uno dei primi pensieri di Lorenzo Guadagnucci, giornalista, vittima di quella notte cilena. Certo, la differenza potrebbe farla la società civile ma mai una sentenza così importante fu pronunciata nel vuoto pneumatico dei movimenti. Solo a Trastevere, verso sera, si materializzeranno i promotori della campagna 10X100. Perché Genova non è finita, fra otto giorni, la Cassazione si pronuncerà sulla sorte dei dieci manifestanti condannati a cent’anni per un reato – devastazione e sacheggio – che era stato pensato per gli sciacalli che si aggirano sulle macerie delle città bombardate, non certo per chi contesta un vertice di capi di stato.

Dunque la sentenza della Cassazione, pronunciata alle 19 dopo ore di attesa, conferma l’esattezza del verdetto d’appello che aveva corretto le storture del primo grado – 13 condanne e 16 assoluzioni – quando i vertici erano stati assolti e i capi dei manganellatori condannati. L’unica notazione degna di merito è il ritocco, in basso, alla condanna dell’agente Nucera, quello che si dette la coltellata da solo. Ci sono volute sei udienze e un ulteriore «antipatico» rinvio di venti giorni che aveva alimentato timori e retropensieri. Vittorio Agnoletto è emozionatissimo, dopo la lettura del dispositivo indossa la maglietta con scritto “Genova, io non dimentico”. Aspettava questo momento da 11 anni, allora era il portavoce del Genoa social forum. «Era giusto insistere. Questa è una domostrazione dell’autonomia della magistratura che non ha ceduto al ricatto sulla decapitazione dei vertici della polizia. Ora deve andarsene anche il capo di tutti loro, quel De Gennaro che ora è diventato segretario dopo essere stato capo dei servizi».

Il cronista cerca anche di capire cosa passi per la testa di vittime giovanissime di quella notte. «Non ti basta il sorriso?!», chiede Mina Zapatero, spagnola. Lei pensa subito ai dieci che rischiano cent’anni poi annuncia che stavolta, nell’anniversario delle giornate genovesi sarà in Val Susa, coi No Tav. Sara Bartezaghi, pestata alla Diaz e desaparecida a Bolzaneto prima di riemergere in un carcere a Voghera, da allora continua a manifestare, spiega che più che gioia è sollievo, «siamo stanchi e delusi dopo tutti questi anni».

Riassunto delle puntate precedenti

Molti anni dopo, dunque, a undici anni dai fatti, la Corte di Cassazione ha scritto la parola fine sul massacro di 92 cittadini europei inermi e incolpevoli dentro una scuola genovese dove trovarono rifugio alcuni manifestanti sfollati dalle tende dopo il nubifragio di due notti prima. Circa 70 i feriti, tre in condizioni gravissime, di cui uno in coma. 75 di loro, vengono portati alla caserma di Bolzaneto per un supplemento di orrore. Pochissimi riuscirono a fuggire. La scuola Diaz era un dormitorio di fronte al media center del Genoa social forum, la vastissima coalizione che promosse tre giorni di dibattiti e manifestazioni contro il G8 del 2001. A prenderla d’assalto, l’ultimo di quei tre giorni, 400 poliziotti, con decine di carabinieri defilati per via dell’omicidio di Carlo Giuliani 29 ore prima da parte di uno di loro.

Il blue block fece irruzione in entrambe le strutture che era già notte. Nel dormitorio pestò a più non posso e solo per miracolo non ci scappò un altro morto, nel media center fu disturbato da una parlamentare di Rifondazione e l’opera risultò monca ma l’irruzione fruttò un discreto bottino di computer distrutti e trafugati. Quanto sia difficile un processo come questo lo spiegarono i due pm all’inizio della lunghissima requisitoria nel luglio di quattro anni fa: processare una divisa è più difficile di processare uno stupratore (perché si tende a colpevolizzare le vittime) e difficilissimo come un processo per mafia (perché scatta il meccanismo dell’omertà). Ecco perché di quei quattrocento “eroi” sono finiti alla sbarra solo in 25: i più alti in grado di quella notte e i capisquadra della celere, sorta di braccio violento della polizia.

Si tratta di uomini vicinissimi al capo della polizia di allora e oggi sottosegretario, come Francesco Gratteri (oggi capo della Direzione Centrale Anticrimine), dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Giovanni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli “anarcoinsurrezionalisti”), investigatori come Gilberto Calderozzi (oggi Direttore del Servizio Centrale Operativo – SCO), Filippo Ferri (allora capo della squadra mobile di La Spezia, poi promosso capo di quella di Firenze) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme agli altri firmatari dei verbali, Spartaco Mortola, oggi vice Questore di Torino, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, Squadra Mobile di Roma), il vicequestore Pietro Troiani e l’agente Alberto Burgio accusato di calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov, il caso più eclatante di fabbricazione di prove false a carico degli arrestati. Per il pestaggio all’interno della Diaz sono stati condannati Vincenzo Canterini (successivamente promosso Questore, Michelangelo Fournier, unico a non essere stato promosso, e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone.

L’operazione era stata stabilita dal Viminale, tanto che il portavoce di De Gennaro atterrò a Genova per sbarrare la strada ai legali delle vittime e ai parlamentari e spiegò che altro non era che una normale perquisizione e che tutto quel sangue era di ferite pregresse, maturate negli scontri di strada del pomeriggio. Il giorno appresso, ancora lui, orchestrò la conferenza stampa senza domande di giornalisti in cui furono mostrate le false prove: attrezzi rubati da un cantiere dai poliziotti, le due molotov fornite dalla questura, i coltellini svizzeri per aprire le scatolette di tonno, sequestrati alle vitime. I massacrati erano accusati di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, in due parole: black bloc. L’operazione doveva fruttare una maxiretata dopo tre giorni segnati dalle scorribande di tutti i corpi armati dello stato ripresi in ogni foggia mentre si accanivano su persone inermi anche con armi improprie mentre pochi incappucciati – rispetto ai 300mila manifestanti – si iludevano che solo i loro cocci di vetri fossero il segno della rivolta e non il copione lugubre scritto da chi li pilotava.

A conti fatti si salvano i peones, mai sfiorati dalle accuse grazie alle omertà; i capisquadra che si beccano in pieno le prescrizioni e De Gennaro per cui la Cassazione ha cancellato l’accusa di aver fatto mentire il questore di allora per minimizzare la regia del Viminale nei fatti della Diaz. L’unico licenziato di allora, Ansoino Andreassi (era il n.ro 2 della polizia in dissenso con la gestione del G8), probabilmente non parlerà mai. Ora tutto ciò avrà un riverbero sulla corsa alla successione di Manganelli alla testa della polizia di stato più che mai travolta dagli scandali. E ci sarà una coda anche sulla vicenda di Aldrovandi: chi frequenta il Viminale giura che non hanno ancora licenziato i quattro colpevoli per non creare un precedente prima dell’ultima sentenza sulla Diaz.

Checchino Antonini da Globalist

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