Genova non e’ finita e questo non e’ un film. In ogni caso nessun rimorso

Alle elezioni politiche del 2001 Berlusconi torna al potere dopo cinque anni di politiche neoliberiste attuate dal centrosinistra. Poco prima D’alema si era offerto di ospitare il vertice dei capi di governo degli otto paesi piu’ industrializzati o ricchi del mondo, il G8.

Dal 20 al 22 luglio 2001 a Genova si svolge il vertice G8.

I media e il governo evocano scenari da apocalypse now. Il ministro degli interni predispone misure di sicurezza straordinarie, da guerra imminente: cecchini nei punti strategici della citta’, chiusura delle frontiere, satelliti spia… La citta’ e’ militarizzata, il centro storico protetto da cancellate e uomini armati. Regna una calma surreale. I negozi sono chiusi. Ai margini della “zona rossa” una marea di “no global”. Nel pomeriggio del 20 luglio ci sono degli scontri tra manifestanti e polizia. Poco prima delle 18,00 arriva la notizia dell’assassinio di Carlo Giuliani. Una vera e propria  esecuzione militare. Oppure, come sentenziano le aule dei tribunali: fu un’incidente, un sasso che devia un proiettile: caso archiviato. Nelle telefonate tra poliziotti e centrale operativa avvenute nella notte del 21 luglio, e successivamente rese note, se ne puo’ ascoltare una in cui un agente del 113 dice: – speriamo muoiano tutti… tanto uno già..1 a 0 per noi -.

Due giorni di scontri, 200 arresti, 1000 feriti e 1 manifestante ucciso…
Oggi, le celebrazioni piu’ o meno ufficiali di quei giorni, con relativo programma di eventi e cortei, si susseguono ma mancano di cuore. I “sinceri democratici” chiedono “verita’ e giustizia” per il massacro alla scuola Diaz, per gli arresti illegali, i pestaggi, le torture di Bolzaneto. Chiamano in causa i massimi vertici delle forze dell’ordine e il potere politico per evidenti e ripetute violazioni dell’ordinamento democratico, dei “diritti dell’uomo”, mentre restano in silenzio sul processo ai 10 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio. Sul fatto che a luglio la Corte di Cassazione si pronuncera’ definitivamente a riguardo e che dieci persone rischiano di pagare, con pene detentive fino a 15 anni, per tutti e per tutto cio’ che e’ accaduto in quei giorni a Genova. Eravamo in 300 mila, dovremmo essere altrettanti oggi a chiedere di assolvere i dieci (dei 25 iniziali) manifestanti accusati di devastazione e saccheggio ma, i “sinceri democratici” hanno accettato la riscrittura della storia, delle proteste contro il G8 di Genova, fatta dai procuratori della repubblica Canepa e Canciani: “Chiamiamo Genova per quello che è stata, devastazione e saccheggio.”
Hanno accettato in silenzio una nuova configurazione del diritto per la quale “la responsabilità morale (…) è più importante della responsabilità materiale”. Allora, bisogna chiedersi quanti di noi si sentono “moralmente o politicamente responsabili” per gli avvenimenti di Genova 2001?

L’Art. 419 del Codice Penale recita, “Chiunque, al di fuori dei casi previsti dall’art. 285 , commette fatti di devastazione e saccheggio è punito con la reclusione da 8 a 15 anni”. L’art. 285 prevede la commissione di un fatto allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, diretto a portare sul territorio dello Stato in una parte di esso, la devastazione, il saccheggio o la strage. Secondo la sentenza dei procuratori Canepa e Canciani l’Art. 419 non si applica piu’ a casi specifici e diventa un reato sfuggente. Chi puo’ infatti fissare con certezza il confine fra il ‘semplice’ danneggiamento, punito con pene ragionevoli, e la devastazione e saccheggio?
Chi decide e con quali criteri e secondo quali valori che rompere una vetrina, sfasciare simboli del potere come le banche, reagire a cariche violente e ingiustificate della polizia, fare un blocco stradale o un picchetto sono azioni produttive di rovina indiscriminata, vasta, profonda e complessiva tali da mettere in crisi il buon assetto o regolare andamento del vivere civile e non un danneggiamento di cose o proprieta’? Chi decide cos’e’  l’ordine pubblico inteso come forma di vivere civile e corretta convivenza in una citta’ militarizzata, blindata, vigilata da uomini armati e reparti speciali dei carabinieri? Che significa “compartecipazione psichica” o “concorso morale” ad atti di “devastazione e saccheggio”? Bastano delle immagini in cui si e’ fotografati con un carrello del Diperdi o mentre si lancia un sasso per attribuire a 10 persone tutti gli scontri avvenuti in una manifestazione con centomila persone il venerdi’ e 300.000 il sabato?

La discrezionalita’ e l’ambiguita’ con cui puo’ venir applicato l’art.419 del codice penale ( pene da 8 a 15 anni, salvo riduzioni o aumenti dovuti a attenuanti e aggravanti), lo rende uno strumento adeguato a regimi autoritari. Per la logica repressiva dello Stato e’ chiaro che danneggiare cose, attentare alla proprieta’ privata, rompere una vetrina, resistere a cariche violente e indiscriminate delle forze dell’ordine e’ piu’ grave che la sospensione dei diritti, i pestaggi in piazza, le torture all’interno della caserma Bolzaneto, il massacro e gli arresti effettuati alla scuola Diaz, le false testimonianze, le molotov fatte ritrovare e inventate e infine l’esecuzione militare di Carlo Giuliani. E’ evidente che in Italia lo Stato in ogni caso si assolve ed ha assolto, in vario modo, la polizia, i carabinieri, e tutti i reparti speciali che parteciparono a quei 3 giorni. Il punto e’ capire se anche per i “sinceri democratici” e’ una cosa del tutto ovvia e naturale che delle persone vengano condannate per “compartecipazione psichica” (per trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato) ad un reato in assenza di prove certe ed evidenti.

Si possono condannare delle persone a pene fino a 15 anni di reclusione solo per foto o video estrapolati dal contesto reale, molto differente da quello disegnato dai pm?

Per Genova si cercavano capri espiatori e li hanno trovati e rischiano condanne con pene superiori a quelle che lo Stato infligge per violenze sessuali efferate, devastazione ambientale, reati economici, sfruttamento delle persone e la loro riduzione in schiavitu’. Alla politica ancora una volta e’ permesso di prendersi gioco della vita delle persone e non importa la sproporzione fra pene comminate e reato. Ai “sinceri democratici” di questo paese chiediamo se si puo’ barattare con le istituzioni politiche e giudiziarie la vita di dieci persone in cambio di condanne innocue e del tutto simboliche contro qualche agente di polizia imputato per i fatti della Diaz o di Bolzaneto?
Per salvare la faccia le istituzioni hanno chiesto il silenzio sulla sorte di dieci persone e in cambio hanno offerto dei processi farsa ai responsabili delle forze dell’ordine in quei giorni a Genova, responsabili che poi sono stati quasi tutti largamente compensati con avanzamenti di carriera.

Alla fine, il silenzio e’ stato fatto e la “sentenza esemplare” e’ arrivata. Si possono prendere 15 anni di carcere per aver spaccato una vetrina. Si puo’ venir accusati di un reato, quello di “devastazione e saccheggio” che e’ formulato in una maniera cosi’ vaga che le “motivazioni della sentenza di condanna”, circa 700 pagine, sono, non un elenco di reati e fatti accertati al di fuori di ogni ragionevole dubbio ma, un trattato ideologico-politico che sostiene che chi si accanisce su delle cose mette a repentaglio la societa’, mette in crisi la “percezione” pubblica del normale e ordinato fluire della vita civile e che dunque deve essere condananto non per danneggiamenti ma per devastazione e saccheggio.

Piu’ che una “sentenza esemplare” si e’ trattato di una “vendetta”. Per 15, dei 25 imputati iniziali, i reati sono prescritti con alcune assoluzioni per i danneggiamenti.
10 manifestanti vengono condannati a 98 anni e mezzo e al risarcimento di 23 mila euro.

La tesi dal processo di primo grado e della procura prima viene riconfermata: alcuni dei manifestanti alla sbarra erano i famigerati black bloc.
L’assoluzione per alcuni è arrivata solo per il fatto che al processo di primo grado dei 25 furono i carabinieri stessi a dire di aver fatto la prima carica contro il corteo delle tute bianche in via Tolemaide di loro iniziativa senza alcun coordinamento con la polizia.
Ma nessuno ha subito un processo per questa carica illeggitima.

I p.m., fin dall’inizio hanno diviso gli imputati in due gruppi. Da un lato i black bloc e dall’altro un gruppo che era piu’ vicino alla zona in cui mori’ Carlo Giuliani e che ha sostenuto di essere stato aggredito illegittimamente da carabinieri e polizia e che ha chiesto di applicare il “diritto alla resistenza” previsto da un decreto del ‘44.

Durante lo svolgimento del processo è stata piu volte chiesta la derubricazione del reato di devastazione e saccheggio, ma senza alcun esito.

Chi, si presume, sulla base di immagini e video rimontati e manipolati, abbia forzato la saracinesca di un supermercato e preso bottiglie d’acqua, che e’ stato ritratto in decine di foto mentre non fa nulla o tutt’al più lancia due sassi rischia condanne severissime mentre i vertici e i responsabili della gestione dell’ordine pubblico in quei giorni a Genova come l’ex capo della polizia De Gennaro ha avuto una carriera sfolgorante e oggi gestisce i servizi segreti italiani. Ma la cosa che stupisce di piu’ e’ che nessuno ha mai voluto veramente una commissione parlamentare d’inchiesta su Genova.
Che peggio, nonostante le denunce delle violazioni dei diritti dell’uomo, delle torture, delle celebrazioni “per non dimenticare” nessuno, nemmeno i “sinceri democratici”, abbaino presa in seria considerazione di battersi per una riforma vera degli apaprati di polizia e repressione dello Stato. Eppure ai “sinceri democratici” non saranno sfuggite le proposte fatte in merito dai Comitati “Verità e Giustizia per Genova” e “Piazza Carlo Giuliani” quali:
– la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell’ordine;
– il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
– l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
– l’aggiornamento professionale delle forze dell’ordine circa i principi della nonviolenza;
– l’impegno alla esclusione dell’utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l’impegno circa una moratoria nell’utilizzo dei GAS CS…

Mettere un nome a tutte le facce possibili
“non esiste un metodo scientifico per effettuare riconoscimenti fotografici”
Le indagini che oggi portano dieci persone a rischiare anni di galera e la sospensione brutale della loro vita cominciano subito dopo il G8 e vengono quasi interamente basate su immagini e video di varia provenienza, diramate a tutte le Digos italiane. Il “lavoro d’inchiesta” consiste nel mettere un nome a tutte le facce possibili: le indagini sono volte a dimostrare chi era a Genova ed effettivamente in strada (Questo porta a una quarantina di identificazioni. Di queste 40 persone, 23 vengono arrestate il 4 dicembre 2002.).

La formazione del fascicolo del dibattimento, la selezione degli atti che possono venir portati a conoscenza del “collegio giudicante”, si concentra da subito sui video e sulla loro ammissibilità come prova, dal momento che la Procura decide di gestire questo processo quasi integralmente provando i fatti attraverso le immagini.

Il primo testimone dell’accusa chiamato a deporre e’ l’ispettore Corda, della Polizia Municipale, sezione di Polizia Giudiziaria, incaricato dai PM di ricostruire e situare cronologicamente, per sostenere l’accusa di devastazione e saccheggio, alcuni dei fatti commessi in Genova nei giorni 20 e 21 del luglio 2001. Durante l’esame di questo teste, utilizzando i tre DVD da lui prodotti, viene «ricostruita» la storia di quei giorni. Sarebbe questa la prova principale dell’ accusa nel processo.
In realtà il video prodotto da Corda è un montaggio e, come ogni montaggio, non è una ricostruzione neutra dei fatti, ma un’interpretazione, realizzata in modo da proporre un messaggio preciso attraverso immagini accuratamente selezionate, poste in sequenza per risultare il più possibile suggestive.

Il tribunale alla fine decidera’ di acquisire i DVD di Corda, “riservata ogni valutazione in merito all’efficacia probatoria del loro contenuto”, mentre il restante materiale video e fotografico verrà acquisito di volta in volta, se ritenuto rilevante e pertinente rispetto al teste. Con una successiva ordinanza il Presidente del Tribunale Devoto specificherà ancora che solo nel caso in cui il teste riconosca nel video se stesso o una specifica situazione di cui è stato protagonista, il video relativo potrà essere acquisito come prova.

Quando la difesa avra’ la possibilita’ di visionare le copie video e fotografiche del materiale della Procura, contestera’ la genuinità del materiale video e la possibilità che gli originali siano stati “manipolati”.

Dal mese di maggio 2005 viene poi sentito come testimone del PM il dr. Cavalera, all’epoca dirigente della Polizia Scientifica di Genova: il PM lo ha usato per i riconoscimenti delle persone individuate nei materiali video fotografici. Dalla sua testimonianza è apparso sostanzialmente che non esiste un metodo scientifico per effettuare riconoscimenti fotografici.

Infine dall’ottobre 2005 è stato sentito il teste Zampese (Digos Genova): nel corso di decine di udienze il teste espone al Tribunale la ricostruzione dei fatti, i comportamenti degli imputati e i relativi riconoscimenti secondo la versione elaborata da Polizia e Procura. La tecnica è quella di un esame fotogramma per fotogramma di ore di filmati soffermandosi su particolari di vestiario utili al riconoscimento delle persone; nessuno spazio è dedicato alla ricostruzione dei comportamenti delle forze dell’ordine: il risultato è che le azioni dei manifestanti sono ancora una volta decontestualizzate.

La gestione dell’ordine pubblico
Genova 2001 e’ ha anticipato la configurazione della gestione dell’ordine pubblico e delle manifestazioni di piazza nel tempo della “guerra infinita”. In questo nuovo concetto di ordine pubblico il confine tra pace e guerra, tra azione militare e azione di polizia diventa sempre piu’ sfumato e ambiguo. L’indistinzione tra “minaccia esterna” e “minaccia interna” promuove la formazione di un’area grigia tra il mestiere di militare e quello di poliziotto.

Il concetto di “reato terroristico” ormai si estende a comportamenti propri di qualsiasi movimento di massa che nulla hanno a che fare con l’usuale significato della parola “terrorismo”. Nella sua definizione a livello internazionale il termine designa “un’associazione che non si è costituita per la commissione estemporanea del reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata”. Questa definizione che mal si adatta ad organizzazioni come Al Qeda o alla mafia, che sono strutturate come organizzazioni militari, serve invece benissimo a colpire le nuove forme organizzative che il movimento si è dato e lo sviluppo dei rapporti costruiti attraverso la rete.

Non abbiamo fiducia
“Non abbiamo fiducia nella magistratura, né nello stato democratico. Non pensiamo di poter trovare verità e giustizia in un tribunale. Ma nemmeno si vuol permettere ai tribunali di «fare giustizia» a modo loro.
Non saranno i tribunali a «rendere giustizia» di quanto accaduto a Genova. La giustizia, anche in uno stato che si compiace di autodefinirsi democratico, non potrà mai condannare il sistema in difesa del quale è stata modellata, dal quale è gestita e per cui si adopera quotidianamente. Non crediamo dunque che nelle aule di tribunale si possa mai avere soddisfazione, giustizia o verità, per i soprusi del potere. Non per questo possiamo permetterci di restarne fuori. Ci sono le vite degli
imputati e di chi è coinvolto nei vari processi. E l’accesso agli atti e alla documentazione è un passaggio obbligato per riflessioni e analisi basate sui «fatti» e non su teorie di comodo, e non solo rispetto ai processi per il G8 di Genova. ( http://www.supportolegale.org/ )

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