La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande.
Archiloco
Il fascismo è una parola di otto lettere che comincia per f. L’uomo, da sempre, si è appassionato fino a morirne per i giochi di parole che, nascondendo la realtà più o meno bene, lo assolvono dalla riflessione personale e dalla decisione. Così il simbolo agisce al nostro posto e ci fornisce un alibi e una bandiera.
Quando al simbolo che non intendiamo sposare, che anzi ci fa schifo profondamente, applichiamo la paroletta “anti”, ci consideriamo da quest’altra parte, al sicuro, e pensiamo di avere assolto con questo a una buona parte dei nostri compiti. Così, poiché alla mente di molti di noi, e chi scrive si annovera fra questi, il fascismo fa schifo, è sufficiente il ricorso a quell’ “anti” per sentirsi a posto con la coscienza, racchiusi in un campo ben guardato e ben frequentato.
Nel frattempo la realtà si muove, gli anni passano e i rapporti di forza si modificano. Nuovi padroni si avvicendano a quelli vecchi e la tragica barra del potere passa di mano in mano. I fascisti di ieri hanno messo da parte le bandiere e le svastiche, consegnate a pochi dissennati dalla larga tonsura, e si sono adeguati al gioco democratico. Perché non avrebbero dovuto farlo? Gli uomini di potere sono soltanto uomini di potere, le chiacchiere nascono e muoiono, il realismo politico no. Ma noi, che di politica capiamo poco o nulla, ci chiediamo imbarazzati cos’è successo, visto che ci hanno tolto da sotto il naso l’antico alibi del fascista nerovestito e mazzafornito, contro cui eravamo adusi a lottare a muso duro. Per cui andiamo cercando, come galline senza testa, un nuovo barlume espiatorio contro cui scaricare il nostro fin troppo facile odio, mentre tutto attorno a noi si fa più sottile e più sfumato, mentre il potere ci chiama a discutere:
– Ma prego, si faccia avanti, dica la sua, senza imbarazzo! Non dimentichi, siamo in democrazia, ognuno ha diritto a parlare quanto e come vuole. Gli altri ascoltano, acconsentono o dissentono, e poi il numero fa il gioco finale. La maggioranza vince e alla minoranza resta il diritto di tornare a dissentire. Purché tutto si mantenga nella libera dialettica delle parti.
Se portiamo la questione del fascismo sul piano delle chiacchiere, dobbiamo ammettere per forza che è stato tutto un gioco. Forse un’illusione:
– Il Mussolini, un brav’uomo, di certo un gran politico. Ha fatto i suoi errori. Ma chi non ne fa. Poi s’è fatto prendere la mano. Lo hanno tradito. Siamo stati tutti traditi. La mitologia fascista e anticoromana? Ma lasci perdere! Lei pensa ancora a queste anticaglie? Roba del passato.
«Hitler… — ironizzava Klaus Mann descrivendo benissimo la mentalità di Gerhart Hauptmann, il vecchio teorico del realismo politico — in fin dei conti,… Miei cari amici!… Niente malanimo!… Cerchiamo di essere… No, se non vi rincresce, consentitemi… obiettivi… Posso riempirmi di nuovo il bicchiere? Questo champagne… straordinario, davvero — l’uomo Hitler, voglio dire… Anche lo champagne, quanto a questo… Un’evoluzione assolutamente straordinaria… La gioventù tedesca… Circa sette milioni di voti… Come ho detto spesso ai miei amici ebrei… Quei tedeschi… nazione incalcolabile… misteriosissima davvero… impulsi cosmici… Goethe… La Saga dei Nibelunghi… Hitler, in un certo senso, esprime… Come ho cercato di spiegare ai miei amici ebrei… tendenze dinamiche… elementari, irresistibili…».
No, sul piano delle chiacchiere no. Davanti ad un buon bicchiere di vino le differenze sfumano, e tutto torna opinabile. Perché, è questo il bello: le differenze ci sono, ma non tra fascismo e antifascismo, ma tra chi vuole, e volendolo persegue e gestisce il potere, e chi lo combatte e lo rifiuta. Ma su quale piano potremmo trovare un fondamento concreto a queste differenze?
Forse sul piano di un’analisi più approfondita? Forse facendo ricorso ad un’analisi storica?
Non credo. Gli storici costituiscono la più utile categoria d’imbecilli al servizio del potere. Credono di sapere molte cose, ma più si accaniscono sul documento, più non fanno altro che sottolineare la necessità del suo essere tale, un documento che attesta in modo incontrovertibile l’accaduto, la prigionia della volontà del singolo nella razionalità del dato, l’equivalenza vichiana del vero e del fatto. Ogni considerazione su possibili eventualità “altre” resta semplice passatempo letterario. Ogni illazione, assurda piacevolezza. Quando lo storico ha un barlume d’intelligenza, travalica subito altrove, nelle considerazioni filosofiche, e qui cade nelle ambasce comuni a questo genere di riflessioni. Racconti di fate, gnomi, e castelli incantati. E ciò mentre tutt’intorno il mondo si assesta nelle mani dei potenti che hanno fatto propria la cultura dei “bignamini”, che non distinguerebbero un documento da una patata fritta. «Se la volontà di un uomo fosse libera, scrive Tolstoj in Guerra e Pace, tutta la storia sarebbe una serie di fatti fortuiti… Se invece esiste una sola legge che governi le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell’arbitrio, poiché la volontà degli uomini dev’essere soggetta a questa legge».
Il fatto è che gli storici sono utili soprattutto a fornirci elementi di conforto. Alibi e protesi psicologiche. Quanto sono stati bravi i federati della Comune del 1871! Come sono morti da coraggiosi al Père Lachaise! E il lettore s’infiamma e si prepara pure lui a morire, se necessario, sul prossimo muro dei federati. In tale attesa, cioè in attesa che oggettive forze sociali ci mettano in condizione di morire da eroi, barcameniamo la vita di tutti i giorni, per poi arrivare alla soglia della morte senza che quella tanto sospirata occasione ci sia stata porta. I trend storici non sono poi così esatti, decennio più, decennio meno, possiamo saltarne qualcuno e ritrovarci con niente nelle mani.
Volete misurare l’imbecillità d’uno storico, portatelo a ragionare sulla cose in fieri e non sul passato. Ne udirete delle belle.
No, le analisi storiche no. Forse quelle politiche, o politico-filosofiche, come siamo stati abituati a leggerne in questi ultimi anni. Il fascismo è questo, e poi quest’altro, e quest’altro ancora. La tecnica di facitura di queste analisi è presto detta. Si prende il meccanismo hegeliano di dire e contraddire nello stesso tempo, qualcosa di simile alla critica delle armi che diventa arma della critica, e si cava fuori da un’affermazione apparentemente chiara tutto quello che passa per la testa in quel momento. Avete presente il senso di disillusione che si ha quando, rincorso inutilmente un autobus, ci si accorge che l’autista pur avendoci visto ha accelerato invece di fermarsi? Bene, in questo caso si può dimostrare, e Adorno mi pare che l’abbia fatto, che è proprio la frustrazione inconscia e remota causata dalla vita che fugge e che non riusciamo ad afferrare che viene a galla, e che ci spinge a desiderare di uccidere l’autista. Misteri della logica hegeliana. Così, quietamente, il fascismo diventa qualcosa di meno spregevole. Siccome dentro di noi, acquattato nell’angolo oscuro dell’istinto bestiale che ci fa aumentare le pulsazioni, sta un fascista incognito a se stesso, siamo portati a giustificare tutti i fascisti in nome del potenziale fascista che è in noi. Certo, gli estremismi no! Questo mai. Quei poveri Ebrei, nei forni! Ma furono poi proprio tanti a morirci dentro? Seriamente, persone degne del massimo rispetto, in nome di un malcompreso senso di giustizia, hanno messo in circolazione le stupidaggini di Faurisson. No, su questa strada è bene non andare avanti.
La volpe è intelligente e quindi ha molte ragioni dalla sua, e tante altre ancora può escogitarne, fino a dare l’impressione che il povero istrice sia senza argomenti, ma non è così.
La parola è un’arma micidiale. Scava dentro il cuore dell’uomo e vi insinua il dubbio. Quando la conoscenza è scarsa, e quelle poche nozioni che possediamo sembrano ballare in un mare in tempesta, cadiamo facilmente in preda agli equivoci generati da coloro che sono più bravi di noi con le parole. Per evitare casi del genere, i marxisti, da buoni programmatori delle coscienze altrui, in modo particolare del proletariato ingreggito, avevano suggerito l’equivalenza tra fascismo e manganello. Anche filosofi di tutto rispetto, come Gentile, dal lato opposto (ma opposto fino a che punto?), avevano suggerito che il manganello, agendo sulla volontà, è anch’esso un mezzo etico, in quanto costruisce la futura simbiosi tra Stato e individuo, in quell’Unità superiore che è lo scopo dell’atto singolo come di quello collettivo. Qui si vede, sia detto tra parentesi, come marxisti e fascisti provengano dal medesimo ceppo idealista, con tutte le conseguenze pratiche del caso: lager compresi. Ma, andiamo avanti. No. Il fascismo non è solo manganello, e non è nemmeno soltanto Pound, Céline, Mishima o Cioran. Non è nulla di tutti questi elementi e di altri ancora singolarmente presi, ma è l’insieme di tutto questo. Non è la ribellione di un individuo isolato, che sceglie la sua personale lotta contro gli altri, tutti gli altri, a volte Stato compreso, e che ci può anche attirare per quella simpatia umana che abbiamo verso tutti i ribelli, anche per quelli scomodi. No, non è lui il fascismo. Non è quindi che difendendo la sua personale rivolta possiamo revocare in dubbio la viscerale nostra avversione verso il fascismo. Anzi spesso, immedesimandoci in queste difese singole, attratti dalla vicenda del coraggio e dell’impegno individuale, confondiamo ancora di più le idee nostre e di coloro che ci ascoltano, determinando inutili tempeste in bicchieri d’acqua.
Le parole ci uccidono, se non facciamo attenzione.
Per il potere, il fascismo nudo e crudo, così come si è concretizzato storicamente in periodi storici e in regimi dittatoriali, non è più un concetto politico praticabile. Nuovi strumenti si affacciano sulla soglia della pratica gestionaria del potere. Lasciamolo quindi ai denti acuminati degli storici, che se lo rosicchino quanto parrà loro. Anche come ingiuria, o accusa politica, il fascismo è fuori moda. Quando una parola viene usata in tono dispregiativo da chi gestisce il potere, non possiamo farne un uso uguale anche noi. E siccome questa parola, e il relativo concetto, ci fanno schifo, sarebbe bene mettere l’una e l’altro nella soffitta degli orrori della storia e non pensarci più.
Non pensarci più alla parola e al concetto, non a quello che quella e questo significano mutando vestito lessicale e composizione logica. È su questo che bisogna continuare a riflettere per prepararsi ad agire. Guardarsi oggi attorno per cercare il fascista, può essere uno sport piacevole, ma potrebbe anche nascondere l’inconscia intenzione di non volere andare al fondo della realtà, dietro la fitta trama di un tessuto di potere che diventa sempre più complicato e difficile da interpretare.
Capisco l’antifascismo. Sono anch’io un antifascista, ma i miei motivi non sono gli stessi di tanti altri che ho sentito in passato e continuo a sentire anche oggi, definirsi antifascisti. Per molti, vent’anni fa, il fascismo lo si doveva combattere dov’era al potere. In Spagna, poniamo, in Portogallo, in Grecia, in Cile, ecc. Quando in quei Paesi al vecchio regime fascista subentrò il nuovo regime democratico, l’antifascismo di tanti ferocissimi oppositori si spense. In quel momento mi accorsi che quei miei vecchi compagni di percorso avevano un antifascismo diverso dal mio. Per me non era cambiato granché. Quello che facevamo in Grecia, in Spagna, nelle colonie portoghesi e in altri Paesi, lo si poteva fare anche dopo, anche quando lo Stato democratico aveva preso il sopravvento, ereditando i passati successi del vecchio fascismo. Ma non tutti erano d’accordo.
Capisco i vecchi antifascisti, la “resistenza”, i ricordi della montagna, e tutto il resto. Bisogna sapere ascoltare i vecchi compagni che ricordano le loro avventure, e le tragedie, e i tanti morti ammazzati dai fascisti e le violenze e tutto il resto. «Ma, diceva ancora Tolstoj, l’individuo che recita una parte negli avvenimenti storici mai comprende il loro significato. Se tenta di capirlo diventa un elemento sterile». Capisco meno coloro che senza avere vissuto quelle esperienze, e quindi senza trovarsi per forza di cose prigionieri di quelle emozioni anche a distanza di mezzo secolo, mutuano spiegazioni che non hanno ragione di esistere e che spesso costituiscono un semplice paravento per qualificarsi.
– Io sono antifascista! Mi buttano in faccia l’affermazione come una dichiarazione di guerra, e tu?
In questi casi mi viene quasi sempre spontanea la risposta. – No, io non sono antifascista. Non sono antifascista come puoi esserlo tu. Non sono antifascista perché i fascisti sono andato a combatterli sul loro territorio quanto tu eri al calduccio della democratica nazione italiana che però mandava al governo i mafiosi di Scelba, di Andreotti e di Cossiga. Non sono antifascista perché ho continuato a combattere contro la democrazia che aveva sostituito quei fascismi ormai da operetta, impiegando mezzi di repressione più moderni e quindi, se vogliamo, più fascisti del fascismo che li aveva preceduti. Non sono antifascista perché anche oggi cerco di individuare l’attuale detentore del potere e non mi faccio abbagliare da etichette e da simboli, mentre tu continui a dirti antifascista per avere la giustificazione per scendere in piazza a nasconderti dietro lo striscione dove c’è scritto “Abbasso il fascismo!”. Certo, se avessi avuto più dei miei otto anni all’epoca della “resistenza”, forse anch’io mi farei adesso travolgere dai ricordi e dalle antiche passioni giovanili e non sarei tanto lucido. Ma penso di no. Perché, se ben si scrutano i fatti, anche fra la congerie confusa e anonima dell’antifascismo da schieramento politico, c’erano coloro che non si adeguavano, che andavano oltre, che continuavano, che insistevano ben al di là del “cessate il fuoco!”. Perché la lotta, a vita e a morte, non è solo contro il fascista di ieri o di oggi, quello che si mette addosso la camicia nera, ma anche e fondamentalmente contro il potere che ci opprime, con tutte le sue strutture di sostegno che lo rendono possibile, anche quando questo potere si veste degli abiti permissivi e tolleranti della democrazia.
– Ma allora, potevi dirlo subito! — qualcuno potrebbe rispondermi cogliendomi in fallo, — anche tu sei antifascista. E come poteva essere diversamente? Sei un anarchico, quindi sei antifascista! Non stancarci con le tue distinzioni.
E invece penso sia utile distinguere. A me il fascista non è mai piaciuto, e di conseguenza il fascismo come fatto progettuale, per altri motivi, che poi, una volta approfonditi, risultano gli stessi motivi per cui non è mai piaciuto il democratico, il liberale, il repubblicano, il gollista, il laburista, il marxista, il comunista, il socialista e tutti gli altri. Contro di loro io ho opposto non tanto il mio essere anarchico, ma il mio essere diverso, e quindi anarchico. Prima di tutto la mia diversità individuale, il mio modo personale, mio e di nessun altro, d’intendere la vita, di capirla e quindi di viverla, di provare emozioni, di cercare, scrutare, scoprire, sperimentare, amare. All’interno di questo mio mondo permetto l’ingresso soltanto a quelle idee e a quelle persone che mi aggradano, il resto lo tengo lontano, con le buone e con le cattive maniere. Non mi difendo, ma attacco. Non sono un pacifista, e non aspetto che venga superato il livello di guardia, cerco di prendere io l’iniziativa contro tutti quelli che, sia pure potenzialmente, potrebbero costituire un pericolo per il mio modo di vivere la vita. E di questo modo di vivere fa parte anche il bisogno degli altri, il desiderio degli altri. Non degli altri in quanto entità metafisica, ma degli altri ben identificati, di coloro che hanno affinità con quel mio modo di vivere e di essere. E questa affinità non è un fatto statico, sigillato una volta per tutte, ma un fatto dinamico, che si modifica e cresce, si allarga via via sempre di più, richiamando altre idee e altri uomini al suo interno, intessendo un tessuto di relazioni immenso e variegato, dove però la costante resta sempre quella del mio modo di essere e di vivere, con tutte le sue variazioni ed evoluzioni.
Ho attraversato in ogni senso il regno degli uomini, e non ho ancora capito dove potrei posare con soddisfazione la mia ansia di conoscenza, di diversità, di passione sconvolgente, di sogno, di amante innamorato dell’amore. Dappertutto ho visto potenzialità immense lasciarsi schiacciare dall’inettitudine e poche capacità sbocciare al sole della costanza e dell’impegno. Ma fin dove fiorisce l’apertura verso il diverso, verso la disponibilità ad essere penetrati e a penetrare, fin dove non c’è paura dell’altro, ma coscienza dei propri limiti e delle proprie capacità, quindi accettazione dei limiti e delle capacità dell’altro, c’è affinità possibile, possibile sogno d’una impresa comune, duratura, eterna, al di là delle umane approssimazioni contingenti.
Muovendomi verso l’esterno, verso territori sempre più distanti da quello che ho descritto, le affinità si affievoliscono e scompaiono. Ed ecco gli estranei, coloro che portano i propri sentimenti come decorazioni, coloro che mostrando i muscoli fanno di tutto per sembrare affascinanti. E, ancora più in là, i segni della potenza, i luoghi e gli uomini del potere, della vitalità coatta, dell’idolatria che assomiglia ma non è, dell’incendio che non scalda, del monologo, della chiacchiera, del chiasso, dell’utile che tutto misura e tutto pesa.
È da ciò che mi mantengo lontano, ed è questo il mio antifascismo.
[Da “Anarchismo”, n. 74, settembre 1994]
What can we do with anti-fascism?
Alfredo M. Bonanno
The fox knows many things.
The porcupine only one, but it is great.
Archilochus
Fascism is a seven-letter word beginning with F. Human beings like playing with words which, by partly concealing reality, absolve them from personal reflection or having to make decisions. The symbol acts in our place, supplying us with a flag and an alibi.
And when we put ‘anti-’ in front of the symbol it is not simply a question of being against what absolutely disgusts us. We feel safe that we are on the other side and have done our duty. Having recourse to that ‘anti-’ gives us a clear conscience, enclosing us in a well-guarded and much frequented field.
Meanwhile things move on. The years go by and so do power relations. New bosses take the place of the old and the tragic coffin of power is passed from one hand to the next. The fascists of yesteryear have complied with the democratic game and handed over their flags and swastikas to a few madmen. And why not? That is the way of men of power. The chit-chat comes and goes, political realism is eternal. But we, who know little or nothing of politics, are embarressedly asking ourselves whatever has happened given that the black-shirted, club-bearing fascists we once fought so resolutely are disappearing from the scene. So, like headless chickens we are looking for a new scapegoat against which we can unleash our all-too-ready hatred, while everything around us is becoming more subtle and mellow and power is calling on us to enter into dialogue: But please step forward, say what you have to say, it’s not a problem! Don’t forget, we’re living in a democracy, everyone has the right to say what they like. Others listen, agree or disagree, then sheer numbers decide the game. The majority win and the minority are left with the right to continue to disagree. So long as everything remains within the dialectic of taking sides.
If we were to reduce the question of fascism to words, we would be forced to admit it had all been a game. Perhaps a dream: ‘Mussolini, an honest man, a great politician. He made mistakes. But who didn’t? Then he got out of control. He was betrayed. We were all betrayed. Fascist mythology? Leave it at that! There’s no point in thinking about such relics of the past.’
‘Hitler’, Klausmann recounts, sarcastically portraying the mentality of Gerhart Hauptmann, the old theoretician of political realism, ‘in the last analysis … my dear friends! … no bad feelings! … let’s try to be … no, if you don’t mind, … allow me … objective … can I get you another drink? This champagne … really extraordinary—Hitler the man, I mean … the champagne as well, for that matter … an absolutely extraordinary evolution … German youth … about seven million votes … as I have often said to my Jewish friends … these Germans … incredible nation … truly mysterious … cosmic impulses … Goethe … the saga of dynamic … elementary irresistible tendencies…’
No, not at the level of small talk. Differences get hazy over a glass of good wine and everything becomes a matter of opinion. Because, and this is the important thing, there are differences, not between fascism and antifascism but between those who want power and those who fight against it and refuse it. But at what level are the foundations of these differences to be found?
By having recourse to historical analysis? I don’t think so. Historians are the most useful category of idiots in the service of power. They think they know a lot but the more they furiously study documents, the more that is all they know: documents which incontrovertibly attest what happened, the will of the individual imprisoned in the rationality of the event. The equivalent of truth and fact. To consider anything else possible is a mere literary pastime. If the historian has the faintest glimmer of intelligence, he moves over to philosophy immediately, immersing himself in common anguish and such like. Tales of deeds, fairy-tale gnomes and enchanted castles. Meanwhile the world around us settles into the hands of the powerful and their revision-book culture, unable to tell the difference between a document and a baked potato. ‘If man’s will were free’, writes Tolstoy in War and Peace, ‘the whole of history would be a series of fortuitous events… if instead there is one single law governing man’s actions, free will cannot exist, because man’s will must be subject to those laws.’
The fact is that historians are useful, especially for supplying us with elements of comfort, alibis and psychological crutches. How courageous the Communards of 1871 were! They died like brave men against the wall at Père Lachaise! And the reader gets excited and prepares to die as well if necessary, against the next wall of the communards. Waiting for social forces to put us in the condition of dying as heroes gets us through everyday life, usually to the threshold of death without this occasion ever presenting itself. Historical trends are not all that exact. Give or take a decade, we might miss this opportunity and find ourselves empty handed.
If you ever want to measure a historian’s imbecility, get him to reason on things that are in the making rather than on the past. It will be a mind-opener!
No, not historical analysis. Perhaps political or political-philosophical discussion, the kind we have become accustomed to reading in recent years. Fascism is something one minute, and something else the next. The technique for making these analyses is soon told. They take the Hegelian mechanism of asserting and contradicting at the same time (something similar to the critique of arms that becomes an arm of criticism), and extract a seemingly clear affirmation about anything that comes to mind at the time. It’s like that feeling of disillusionment you get when, after running to catch a bus you realise that the driver, although he saw you, has accelerated instead of stopping.
Well, in that case one can demonstrate, and I think Adorno has done, that it is precisely a vague unconscious frustration—caused by the life that is escaping us which we cannot grasp—which surges up, making us want to kill the driver. Such are the mysteries of Hegelian logic! So, fascism gradually becomes less contemptible. Because inside us, lurking in some dark corner of our animal instinct, it makes our pulse quicken. Unknown to ourselves, a fascist lurks within us. And it is in the name of this potential fascist that we come to justify all the others. No extremists, of course! Did so many really die? Seriously, in the name of a misunderstood sense of justice people worthy of great respect put Faurisson’s nonsense into circulation. No, it is better not to venture along this road.
When knowledge is scarce and the few notions we have seem to dance about in a stormy sea, it is easy to fall prey to the stories invented by those who are cleverer with words than we are. In order to avoid such an eventuality the Marxists, goodly programmers of others’ minds that they are (particularly those of the herded proletariat), maintained that fascism is equivalent to the truncheon. On the opposite side even philosophers like Gentile suggested that the truncheon, by acting on the will, is also an ethical means in that it constructs the future symbiosis between State and individual in that superior unity wherein the individual act becomes collective. Here we see how Marxists and fascists originate from the same ideological stock, with all the ensuing practical consequences, concentration camps included. But let us continue. No, fascism is not just the truncheon, nor is it even just Pound, Céline, Mishima or Cioran. It is not one of these elements, or any other taken individually, but is all of them put together. Nor is it the rebellion of one isolated individual who chooses his own personal struggle against all others, at times including the State, and could even attract that human sympathy we feel towards all rebels, even uncomfortable ones. No, that is not what fascism is.
For power, crude fascism such as has existed at various times in history under dictatorships, is no longer a practicable political project. New instruments are appearing along with the new managerial forms of power. So let us leave it for the historians to chew away on as much as they like. Fascism is out of fashion even as a political insult or accusation. When a word comes to be used disparagingly by those in power, we cannot make use of it as well. And because this word and related concept disgusts us, it would be well to put one and the other away in the attic along with all the other horrors of history and forget it.
Forget the word and the concept, but not what is concealed under it. We must keep this in mind in order to prepare ourselves to act. Hunting fascists might be a pleasant sport today but it could represent an unconscious desire to avoid a deeper analysis of reality, to avoid getting behind that dense scheme of power which is getting more and more complicated and difficult to decipher.
I can understand antifascism. I am an antifascist too, but my reasons are not the same as those of the many I heard in the past and still hear today who define themselves as such. For many, fascism had to be fought twenty years ago when it was in power in Spain, Portugal, Greece, Chile, etc. When the new democratic regimes took their places in these countries, the antifascism of so many ferocious opponents extinguished itself. It was then that I realised the antifascism of my old comrades in struggle was different to mine. For me nothing had changed. What we did in Greece, Spain, the Portuguese colonies and in other places could have continued even after the democratic State had taken over and inherited the past successes of the old fascism. But everyone did not agree. It is necessary to know how to listen to old comrades who tell of their adventures and the tragedies they have known, of the many murdered by the fascists, the violence and everything else. ‘But’, as Tolstoy again said, ‘the individual who plays a part in historical events never really understands the significance of them. If he tries to understand them he becomes a sterile component.’ I understand less those who, not having lived these experiences, and therefore don’t find themselves prisoners of such emotions half a century later, borrow explanations that no longer have any reason to exist, and which are often no more than a simple smokescreen to hide behind.
‘I am an antifascist!’, they throw at you like a declaration of war, ‘and you?’
In such cases my almost spontaneous reply is—no, I am not an antifascist. I am not an antifascist in the way that you are. I am not an antifascist because I went to fight the fascists in their countries while you stayed in the warmth of Italian democracy which nevertheless put mafiosi like Scelba, Andreotti and Cossiga in government. I am not an antifascist because I have continued to fight against the democracy that replaced these soap opera versions of fascism. It uses more up to date means of repression and so is, if you like, more fascist than the fascists before them. I am not an antifascist because I am still trying to identify those who hold power today and do not let myself be blinded by labels and symbols, while you continue to call yourself an antifascist in order to have a justification for coming out into the streets to hide behind your ‘Down with fascism!’ banners. Of course, if I had been older than eight at the time of the ‘resistance’, perhaps I too would be overwhelmed by youthful memories and ancient passions and would not be so lucid. But I don’t think so. Because, if one examines the facts carefully, even between the confused and anonymous conglomeration of the antifascism of political formations, there were those who did not conform, but went beyond it, continued, and carried on well beyond the ‘ceasefire’! Because the struggle, the life and death struggle, is not only against the fascists of past and present, those in the blackshirts, but is also and fundamentally against the power that oppresses us, with all the elements of support that make it possible, even when it wears the permissive and tolerant guise of democracy.
‘Well then, you might have said so right away!’—someone could reply—’you are an antifascist too.’
‘And how else could it be? You are an anarchist, so you are an antifascist! Don’t tire us by splitting hairs.’
But I think it is useful to draw distinctions. I have never liked fascists, nor consequently fascism as a project. For other reasons (but which when carefully examined turn out to be the same), I have never liked the democratic, the liberal, the republican, the Gaullist, the labour, the Marxist, the communist, the socialist or any other of those projects. Against them I have always opposed not so much my being anarchist as my being different, therefore anarchist. First of all my individuality, my own personal way of understanding life and nobody else’s, of understanding it and therefore of living it, of feeling emotions, searching, discovering, experimenting, and loving. I only allow entry into this world of mine to the ideas and people who appeal to me; the rest I hold far off, politely or otherwise.
I don’t defend, I attack. I am not a pacifist, and don’t wait until things go beyond the safety level. I try to take the initiative against all those who might even potentially constitute a danger to my way of living life. And part of this way is also the need and desire for others—not as metaphysical entities, but clearly identified others, those who have an affinity with my way of living and being. And this affinity is not something static and determined once and for all. It is a dynamic fact which changes and continues to grow and widen, revealing yet other people and ideas, and weaving a web of immense and varied relations, but where the constant always remains my way of being and living, with all its variations and evolution.
I have traversed the realm of man in every sense and have not yet found where I might quench my thirst for knowledge, diversity, passion, dreams, a lover in love with love. Everywhere I have seen enormous potential let itself be crushed by ineptitude, and meagre capacity blossom in the sun of constancy and commitment. But as long as the opening towards what is different flourishes, the receptiveness to let oneself be penetrated and to penetrate to the point that there is not a fear of the other, but rather an awareness of one’s limitations and capabilities—and so also of the limits and capabilities of the other—affinity is possible; it is possible to dream of a common, perpetual undertaking beyond the contingent, human approach. The further we move away from all this, affinities begin to weaken and finally disappear. And so we find those outside, those who wear their feelings like medals, who flex their muscles and do everything in their power to appear fascinating. And beyond that, the mark of power, its places and its men, the forced vitality, the false idolatry, the fire without heat, the monologue, the chit chat, the uproar, the usable, everything that can be weighed and measured.
That is what I want to avoid. That is my antifascism.
[Original title: Che ne facciamo dell’antifascismo?,
“Anarchismo” n. 74, september 1994]
Que faire de l’anti-fascisme ?
Alfredo M. Bonanno
Le renard sait beaucoup de choses.
Le porc-épic n’en sais qu’une, mais une grande.
Archiloque
Le fascisme est un mot à sept lettres qui commence par F. Les gens aiment jouer avec les mots, qui en dissimulant en partie la réalité, les déchargent de toute réflexion personnelle ou de toute prise de décision. Le symbole agit à notre place en nous fournissant un drapeau et un alibi.
Et placer « anti- » devant le symbole n’équivaut pas à être absolument contre tout ce qui nous dégoûte. Nous nous sentons à l’aise de ce côté-ci, avec le sentiment du devoir accompli. Avoir recours à ce « anti- » nous donne une conscience claire, nous enfermant dans un domaine bien gardé, et très fréquenté.
Pendant ce temps, les choses évoluent. Les années passent, tout comme les relations de pouvoir. De nouveaux patrons prennent la place des vieux et le cercueil tragique du pouvoir passe d’une main à l’autre. Les fascistes d’antan ont observé le jeu démocratique et ont laissé leurs drapeaux et leurs croix gammées à quelques têtes brulées. Et pourquoi pas ? Après tout, nous parlons là d’hommes de pouvoir. Les bavardages vont et viennent, le réalisme politique est éternel. Mais nous, qui ne voulons savoir que peu ou rien de la politique, nous demandons à nous-mêmes, embarrassés, qu’à-t-il bien pu se passer pour que les chemises noires, les fascistes à barres de fer que nous avons combattus avec résolution, disparaissent de la scène ?
Ainsi, comme des poules sans têtes nous cherchons un nouveau bouc émissaire contre lequel nous pouvons lâcher notre prêt-à-haïr, alors que tout autour de nous, tout tend à devenir plus subtil et plus mûr et que le pouvoir nous invite à entrer en dialogue avec lui : Mais marchez vers l’avant je vous prie, en avant, dites ce que vous devez dire, ce n’est pas un problème ! N’oubliez pas, nous vivons en démocratie, chacun a le droit de dire ce qu’il veut. D’autres écoutent, sont d’accord ou ne sont pas d’accord, mais les purs décident du jeu. La majorité gagne et il ne reste plus à la minorité que le droit de continuer à n’être pas d’accord. Tout cela, aussi longtemps que la totalité se réduit à la dialectique du « choisir son camp ».
Si nous devions réduire la question du fascisme à de simples mots, nous serions forcés d’admettre que tout cela n’ait été qu’un jeu, ou peut-être un rêve. « Mussolini, un honnête homme, un grand politicien. Il a fait des erreurs. Mais qui n’en fait pas ? puis il est devenu hors de contrôle. Il a été trahi. Nous avons tous été trahis. De la mythologie fasciste ? Laisse tomber ! Il n’y a aucun intérêt à penser à de telles reliques du passé. »
« Hitler », se souvient Klausmann, en faisant le portrait sarcastique de la mentalité de Gerhart Hauptmann, le vieux théoricien du réalisme politique, « mes chers amis ! … sans rancune ! Essayons d’être… Non, si vous me permettez, … permettez moi … objectif … Voulez vous que je vous serve un autre verre ? Ce champagne… vraiment exquis – Ce Hitler là, je veux dire … le champagne aussi, d’ailleurs, quelle grande évolution … la jeunesse allemande… environ 7 millions de votes … comme je le dis souvent à mes amis juifs… ces allemands… incroyable nation… vraiment mystérieuse …des impulsions cosmiques… Goethe … la saga de la dynamique … des tendances élémentaires et irrésistibles… »
Non, que cesse le papotage. Les différences s’atténuent autour d’un verre de bon vin, et tout devient une question d’opinion. Parce que, et c’est là la chose importante, il y a des différences, pas entre le fascisme et l’anti-fascisme, mais entre ceux qui veulent le pouvoir et ceux qui se battent contre le pouvoir et le refusent. Mais quelles sont les bases de ces différences à déchiffrer ?
Peut être en ayant recours à analyse ? Non, je ne pense pas.
Les historiens sont la catégorie la plus utile d’idiots au service du pouvoir. Ils pensent connaitre énormément, mais plus ils étudient furieusement des documents, plus ils ne connaissent rien d’autre. Les documents qui certifient indéniablement ce qui est arrivé procèdent de la volonté de l’individu emprisonné dans la rationalité de l’événement. L’équivalent de la vérité et du fait. Considérer qu’autre chose est possible devient un vague passe-temps littéraire. Si l’historien a la moindre lueur vacillante d’intelligence, il se dirige immédiatement vers la philosophie, s’immergeant dans l’angoisse commune, dans les contes de fées et de châteaux enchantés. En attendant le monde autour de nous se voit emprisonné entre les mains des puissants, et leur culture du livre de révision d’examens est incapable de souligner la différence entre un document et une pomme de terre cuite. « Si la volonté de l’homme était libre », écrit Tolstoï dans Guerre et Paix, « toute l’histoire serait une série d’événements fortuits… Si au lieu de cela il y a une loi dirigeant seule les actions de l’homme, alors le libre arbitre ne peut exister, parce que la volonté de l’homme doit être soumise à ces lois. »
Le fait est que les historiens sont utiles, particulièrement pour nous fournir des éléments confortables, des alibis et des béquilles psychologiques. Quel courage ces Communards de 1871 ! Ils sont morts comme de braves hommes, dos au mur du Père Lachaise ! Et le lecteur est excité et se prépare à mourir aussi si nécessaire, dos au prochain mur des communards. Attendre des forces sociales qu’elles nous mettent dans la condition du mort héroïque nous traverse alors quotidiennement, souvent au seuil de la mort sans même que cette occasion ne se présente. Mais les tendances historiques ne sont pas si exactes. Donnez ou prenez une décennie, nous pourrions manquer cette occasion et nous retrouver les mains vides.
Si vous voulez mesurer l’imbécillité d’un historien, faites lui raisonner sur les choses qui arrivent aujourd’hui plutôt que dans le passé. Cela vous ouvrira l’esprit.
Non, pas d’analyse historique non plus : la discussion peut-être politique ou politico-philosophique, du genre que nous nous sommes habitués à lire ces dernières années. Le fascisme est quelque chose une minute et quelque chose d’autre la minute suivante. La technique nécessaire pour en arriver à cette analyse est vite vue. Prenez le mécanisme hégélien d’affirmation et d’infirmation simultanées, extrayez-en une affirmation pure à propos de ce qui vous vient à l’esprit. Cela ressemble à ce sentiment de déception que l’on a lorsqu’après avoir couru pour attraper un bus, on réalise que le chauffeur, même s’il nous a vu, a accéléré au lieu de s’arrêter.
Bien, dans ce cas on peut démontrer, et je pense qu’Adorno l’a fait, que c’est précisément une vague de frustration inconsciente – causée par la vie qui nous échappe et devient insaisissable – qui déferle en nous, nous donnant envie de tuer le conducteur. Tels sont les mystères de la logique Hégélienne ! Ainsi, le fascisme devient progressivement moins méprisable. Parce qu’à l’intérieur de nous, se cachant dans un coin sombre de notre instinct animal, le rythme du cœur s’excite. Pourtant inconnu de nous-mêmes, un fasciste se cache en nous. Et c’est au nom de ce potentiel fasciste que nous venons à justifier tous les autres. Pas d’extrémistes, bien entendu ! Tant de gens sont-ils morts ?
Plus sérieusement, au nom d’un sens bancal de la justice, des personnes qui étaient pourtant dignes de respect mettent les non-sens de Faurisson en circulation. Mais non, mieux vaut ne pas s’aventurer le long de cette route.
Quand les connaissances sont rares et que le peu de notions que nous avons semblent sautiller sur place dans une mer orageuse, il est facile de devenir la proie d’histoires inventées par ceux qui sont plus intelligents avec les mots que nous le sommes. Dans le but d’éviter une telle éventualité, les Marxistes, gracieux programmeurs d’esprits qu’ils sont, ont entretenu l’idée que le fascisme était l’équivalent de la matraque.
A l’opposé, même des philosophes comme Gentile [1] ont suggéré que la matraque, en agissant sur la volonté, est aussi un moyen moral en ce qu’elle construit la symbiose future entre État et individu dans cette unité supérieure où l’acte individuel devient collectif. Là nous voyons à quel point les Marxistes et les fascistes sont originaires d’un même stock idéologique, avec toutes les conséquences pratiques qui s’ensuivent, camps de concentration inclus. Mais continuons. Non, le fascisme n’est pas juste la matraque, il n’est pas non plus juste Céline, Mishima, Pound [2] ou Cioran. Il n’est pas un seul de ces éléments, ni aucun autre pris individuellement, mais tous, lorsqu’ils sont réunis. Ce n’est pas non plus la rébellion d’un individu isolé qui choisit sa propre lutte personnelle contre toutes les autres, en incluant de temps en temps l’État, et qui pourrait même attirer cette sympathie humaine que nous ressentons pour tous les rebelles, même les plus inconfortables. Non, cela n’est pas le fascisme.
Pour le pouvoir, le fascisme brut comme celui qui a pu exister sous des dictatures à des périodes diverses de l’histoire n’est plus un projet politique praticable. De nouveaux instruments apparaissent aux cotés des nouvelles formes de gestion du pouvoir. Alors laissons cela aux historiens pour qu’ils puissent mâcher autant qu’ils le veulent. Le fascisme est démodé même en tant qu’insulte politique ou accusation. Quand un mot en vient à être instrumentalisé de façon désobligeante par ceux qui sont au pouvoir, nous ne pouvons pas l’ignorer. Et parce que ce mot et le concept lié à ce mot nous dégoûtent, il serait bien de mettre l’un et l’autre loin dans le grenier avec toutes les autres horreurs de l’histoire et l’oublier.
Oublier le mot et le concept, oui, mais surtout pas ce qui s’y dissimule. Nous devons garder celà à l’esprit pour nous préparer à agir. La chasse aux fascistes pourrait en effet être un sport plaisant de nos jours, mais il pourrait aussi représenter ce désir inconscient d’éviter toute analyse plus profonde de l’existant.
Je peux comprendre l’anti-fascisme. Je suis un antifasciste aussi, mais mes raisons ne sont pas semblables à celle des anti-fascistes ! J’en ai entendu par le passé et j’en entend toujours aujourd’hui qui se définissent comme tel. Pour beaucoup, il fallait combattre le fascisme il y a vingt ans lorsqu’il était au pouvoir en Espagne, au Portugal, en Grèce, au Chili, etc. Mais pourtant, lorsque les nouveaux régimes démocratiques ont pris leurs marques dans ces pays, l’anti-fascisme qui possédait tant de féroces adversaires s’est éteint. C’est là que je me suis rendu compte que l’anti-fascisme de mes vieux camarades de lutte était différent du mien. Pour moi rien n’avait changé. Ce que nous avons fait en Grèce, en Espagne, dans les colonies portugaises et en d’autres endroits pourrait avoir continué même après que les nouveaux États démocratiques aient hérité des succès passés du vieux fascisme.
Mais beaucoup n’étaient pas d’accord.
Il est nécessaire de savoir écouter les vieux camarades qui nous racontent leurs aventures et les tragédies qu’ils ont connu, lorsqu’ils nous parlent de tous ceux qui furent assassinés par les fascistes, de la violence et de tout le reste. Mais, comme disait Tolstoï, encore lui, « l’individu qui joue un rôle dans des événements historiques n’en comprend jamais vraiment la signification. S’il essaye de la comprendre, il devient un composant stérile ».
Je comprends moins ceux qui un demi-siècle plus tard et n’ayant pas vécu ces expériences (ne se trouvant donc pas prisonniers de ces émotions) empruntent des explications qui n’ont plus aucune raison d’exister et qui ne sont souvent rien de plus qu’un simple écran de fumée derrière lequel se cacher confortablement.
« Je suis anti-fasciste ! », vous jettent-ils à la figure comme une déclaration de guerre, « et vous ? »
Dans un tel cas, ma réponse quasi-spontanée est – Non, je ne suis pas un antifasciste. Je ne suis pas un antifasciste de la façon dont vous l’êtes. Je ne suis pas un antifasciste parce que je suis allé combattre les fascistes dans leurs pays pendent que vous restiez au chaud dans votre démocratie. Je ne suis pas un antifasciste parce que j’ai continué à me battre contre la démocratie qui a remplacé ces innombrables versions du fascisme dans ce véritable feuilleton mélodramatique. La démocratie utilise des moyens de répression bien plus modernes, elle est, si cela vous fait plaisir, plus fasciste que les fascistes eux-mêmes. Je ne suis pas un antifasciste parce que j’essaye encore d’identifier ceux qui détiennent le pouvoir aujourd’hui et je ne me laisse pas aveugler par des étiquettes et des symboles ; tandis que vous, vous continuez à vous appeler anti-fascistes uniquement dans le but d’avoir une justification pour parader dans les rues à vous cacher derrière votre banderole « à bas le fascisme ! ». Bien sûr, si j’avais eu plus de huit ans du temps de la « résistance », peut-être aurais-je été moi aussi exalté par tant de jeunes mémoires et d’antiques passions et surement que je n’aurais pas été si lucide. Mais je ne pense pas. Parce que si l’on examine soigneusement les faits, même dans le conglomérat embarrassé et anonyme de l’anti-fascisme des formations politiques, il y en eut qui ne se sont pas conformés, qui sont allés plus loin, ont continué et ont porté leurs convictions bien au-delà du « cessez-le-feu ! ». Parce que la lutte vitale n’est pas seulement contre les fascistes en chemises noires [3] du passé et ceux du présent, mais aussi et fondamentalement contre le pouvoir et tous ses éléments d’appui qui nous oppriment, même lorsqu’il porte la figure laxiste et tolérante de la démocratie.
« Dans ce cas la, vous auriez du le dire plus tôt » pourrait-on me répondre – « vous êtes un antifasciste aussi ».
« Et comment pourrait-il en être autrement ? Vous êtes anarchiste… donc vous êtes anti-fasciste ! Arrêtez de vous couper les cheveux en quatre et de nous emmerder. »
Mais je pense qu’il est utile de faire des distinctions claires, je suis anarchiste et je n’ai jamais aimé les fascistes, ni leur projet. Pour d’autres raisons (mais qui après examen s’avèrent être les mêmes), je n’ai jamais aimé les démocrates, les libéraux, les républicains, les Gaullistes, les travaillistes, les Marxistes, les communistes, les socialistes ou n’importe lequel de ces projets. Contre eux, je n’ai jamais vraiment opposé mon anarchisme mais plutôt ma différence : Tout d’abord mon individualité, ma propre compréhension de la vie, ressentir des émotions, chercher, découvrir, expérimenter et aimer. Je permets seulement l’entrée à ce monde qu’aux idées et aux gens qui m’attirent ; le reste je le garde généralement à bonne distance de moi, poliment, ou autrement.
Je ne me défends pas, j’attaque. Je ne suis pas un pacifiste et je n’attends pas que les choses aillent au-delà du niveau de sécurité limite. J’essaye de prendre l’initiative contre ceux qui pourraient -même potentiellement- constituer un danger pour ma façon de vivre la vie. Et une partie de cette façon de vivre est aussi le besoin et le désir des autres – pas comme des entités métaphysiques, mais comme des autres clairement identifiés, ceux qui ont une affinité avec ma façon d’être et de vivre. Et cette affinité n’est pas quelque chose de statique et gravée à jamais dans la pierre. Il s’agit d’une affinité dynamique qui change et continue à se cultiver et à s’élargir, en révélant encore d’autres personnes et d’autres idées et en tissant un réseau de relation immense et divers, mais où la constance de ma façon d’être et de vivre avec toutes ses variations et évolutions, n’est pas menacée.
J’ai voyagé aux quatre coins du royaume des hommes et je n’ai pas encore trouvé d’endroit précis où satisfaire ma soif pour la connaissance, la diversité, la passion, les rêves : un amant amoureux de l’amour.
Partout j’ai vu d’énormes potentialités se laisser écraser par l’inconvenance, et de maigres capacités fleurir au soleil d’une constance de l’engagement. Mais tant que fleurit l’ouverture vers ce qui est différent [4], l’affinité est possible ; c’est possible de rêver à un engagement commun, perpétuel et au-delà du contingent, telle est l’approche humaine.
Et plus nous nous éloignons de tout cela, plus les affinités commencent à s’affaiblir et finalement, à disparaître. Et alors nous les retrouvons là, tous ceux qui portent leurs opinions comme des médailles, qui montrent leurs muscles et qui font tout ce qu’ils peuvent pour apparaître fascinants. Et au-delà, la domination du pouvoir, ses lieux et ses hommes, la vitalité obligatoire, la fausse idolâtrie, le feu sans chaleur, le monologue, le bavardage, le tumulte, toutes ces choses qui peuvent être pesées et mesurées demeurent.
C’est tout cela que je souhaite éviter, voici mon anti-fascisme.
[Titre original : Che ne facciamo dell’antifascismo ?, publié dans la revue
italienne “Anarchismo”, n. 74, Septembre 1994]
[1] Giovanni Gentile (Castelvetrano, le 30 mai 1875 – Florence, le 15 avril 1944) était un philosophe italien, idéaliste et néo-hégélien, proche de Benedetto Croce. Il se décrit lui-même comme le “philosophe du fascisme”, et a en grande partie rédigé pour Benito Mussolini la Doctrine du fascisme en 1932. Il est également à l’origine de l’idéalisme actuel, un courant philosophique qui entendait se distinguer de l’idéalisme transcendantal de Kant et de l’idéalisme absolu de Hegel.
[2] Ezra Weston Loomis Pound (Hailey, Idaho, États-Unis, 30 octobre 1885 – 1er novembre 1972 à Venise) est un poète, musicien et critique américain qui a fait partie du mouvement moderniste du début des années 1920 et qui est souvent rattaché à la Génération perdue. Pound était le chef de file de plusieurs mouvements littéraires et artistiques comme l’imagisme et le vorticisme. Pound était également un fervent supporter de Benito Mussolini, il fut critiqué pour ses prises de position antisémites. Son engagement aux côtés de Mussolini lui vaut d’être condamné en 1945. Il est reconnu malade et interné jusqu’en 1958.
[3] Les chemises noires, ou Milice Volontaire pour la Sécurité Nationale (MVSN) était la principale milice des fascistes italiens.
[4] la réceptivité à se laisser pénétrer et à pénétrer au point de ne plus craindre l’autre, mais plutôt une conscience de ses propres limites et capacités et donc aussi des limites et des capacités de l’autre.