Ci vogliono delle insurrezioni locali, perché un giorno la Rivoluzione diventi possibile. Fa d’uopo anzi ch’esse siano numerose. Ci vogliono pure delle città e delle regioni agricole che abbiano la tradizione delle insurrezioni.
Anche quando una rivoluzione è già cominciata, com’era il caso in Russia nel 1905, è necessario che la serie d’insurrezioni nelle città e soprattutto quelle dei contadini su vasti territori continuino, perché la Rivoluzione abbia il tempo di svilupparsi, impedendo nello stesso tempo alla reazione di raggruppare le proprie forze. Tutta la storia ce ne fornisce la prova. E se oggi i dirigenti arrivisti del movimento proletario — intellettuali ed operai — predicano il contrario, è che non vogliono affatto la rivoluzione. La temono. Il popolo in piazza li spaventa; lo detestano, non meno di quanto i borghesi del 1789 detestavano gli uomini delle picche.
Ebbene, senza queste insurrezioni, senza tutta una serie d’insurrezioni, la rivoluzione non sarebbe mai possibile.
E si capisce. Perché vi sia rivoluzione, bisogna che il malcontento, il desiderio di farla finita con l’oppressione siano sviluppati e diffusi in larghi strati fra le masse — le sole da cui venga l’azione rivoluzionaria. E non appena questo malcontento e questo desiderio esistono, le sommosse locali diventano inevitabili. Nulla può impedirlo.
E non ci si dica ch’esse sono inutili, è una menzogna. Vi sono mai state delle insurrezioni inutili? L’ultimo sollevamento di Barcellona non ha forse aggiunto un’altra alle già tante prove date dalla storia? Non c’è forse voluto che l’odio del popolo contro il regno dei preti si traducesse in atti di violenza, che si bruciassero dei conventi, che tutta l’Europa intellettuale si sollevasse indignata contro i vili assassini di Ferrer — perché i primi passi, ben timidi del resto, fossero fatti in Spagna per liberarsi dal giogo di Roma?
Quando i politicanti borghesi ed operai parlano contro le insurrezioni popolari, con quest’altro pretesto ch’esse sono incoscienti — sappiamolo una buona volta per tutte, è che nulla ripugna loro di più del popolo armato nelle vie.
La monarchia e le commedie dell’incoronazione, l’ignoranza mantenuta dal clero e lo sfruttamento mantenuto dal capitalista, la fame nelle campagne, le fucilate, le esecuzioni in massa, i furori del terrore bianco, — son tutte cose a cui possono rassegnarsi i politicanti! Ricordiamoci soltanto del terrore bianco in Francia durante la Restaurazione dei Borboni, del terrore bleu dopo il 1848 e il 1871, del terrore nero in Russia dopo il 1907.
Essi hanno potuto adattarsi meravigliosamente a tutto ciò, perché se c’è qualche cosa che odiano assai più di tutti i furori della reazione, è il berretto di lana con la picca del 1789, la bandiera rossa del proletario, la falce attaccata del contadino all’estremità d’un bastone in guisa di picca, o, assai più ancora, le espropriazioni fatte con ordine e sistema, quasi come un atto religioso, dai comuni di contadini russi nel 1904.
È per meglio guadagnare al loro odio della sommossa popolare i rivoluzionari usciti dalle file del popolo, che ora soffiano loro in un orecchio questa parola gesuita, — questa parola di tradimento: «Non fate dei movimenti incoscienti!». Con questa parola, che permette così bene di menare pel naso gli operai tedeschi, si cerca oggi di castrare i proletari rivoluzionari dei paesi latini.
Chi mai, più di noi anarchici, ha contribuito a diffondere fra i lavoratori la coscienza netta, ragionata, concreta dello scopo comunista anarchico che bisogna porre dinnanzi alla prossima rivoluzione? Chi mai, più della frazione anarchica dell’Internazionale, da Bakunin in poi, ha lavorato a risvegliare nella classe operaia — non solamente la coscienza intelligente dello scopo da raggiungere, ma la coscienza pure delle ragioni storiche, economiche, morali ed altre che rendono questo scopo desiderabile possibile a raggiungersi? E chi mai, più di noi, ha insistito su questo fatto, che la borghesia avrà sempre il sopravvento, finché l’operaio non saprà ciò che vuole ottenere dalla prossima rivoluzione?
Ma precisamente perché conosciamo bene il nostro scopo, e che sappiamo di non poterlo raggiungere in un giorno, — noi protestiamo contro l’abuso gesuitico della parola incosciente applicata alle insurrezioni.
Precisamente perché sappiamo che una sommossa può bene in un giorno rovesciare e cambiare un governo, ma che una rivoluzione per giungere ad un risultato tangibile — a un cambiamento serio e duraturo nella ripartizione delle forze economiche, domanda tre o quattro anni di bufera rivoluzionaria, — precisamente per ciò noi diciamo ai lavoratori:
Le prime sommosse d’una rivoluzione non si possono fare già con l’idea di compiere i cambiamenti vasti e profondi cui potrà giungere soltanto una rivoluzione, quando avrà avuto il tempo di svilupparsi.
I primi sollevamenti non possono avere altro scopo che quello di scuotere la macchina del governo: fermarla, guastarla, renderla impotente e, per ciò stesso, rendere possibili gli sviluppi seguenti del movimento.
Prendete la Comune di Parigi del 1871. Varlin ebbe perfettamente ragione di correre, al primo rumore dell’insurrezione del 18 marzo, coi compagni del suo battaglione, verso il Palazzo di città. Doveva forse aspettare, come l’ordinava Engels e Marx da Londra, che il movimento proclamasse i principi comunisti?
I rivoluzionari di Parigi ebbero perfettamente ragione di gettarsi in quel movimento, benché la maggior parte di coloro che spianavano il fucile non avevano certamente nessuna idea del carattere comunista che poteva prendere più tardi il movimento repubblicano comunalista, — movimento che cominciava ad assicurare l’indipendenza di Parigi, ma che avrebbe potuto diventare quindi ben più profondo, se avesse durato.
Comprendevano, che dopo la propaganda rivoluzionaria fatta contro il regime esistente, era loro dovere gettarsi in un movimento insurrezionale contro questo regime. Il popolo era nelle vie, insorto contro quelli stessi Thiers, Ferry e tutta quella banda di borghesi opportunisti che avevano tante volte attaccati. Non era loro dovere d’essere col popolo, di cominciare con lui l’opera di demolizione?
Il loro errore fu quello invece di non essere, neppur essi, abbastanza comunisti per lavorare senz’altro alla ricostruzione economica della società. Fu quello, poi, di lasciarsi portare al governo della Comune.
Non fu, come si è sovente detto in mezzo a noi, di lasciar costituire un governo della Comune, perché non potevano opporvisi, dato il fondo autoritario degli spiriti a quell’epoca. Il loro errore fu di lasciarsi portare, essi, al potere; di lasciarsi rinchiudere, essi, in un governo coi Felix Pyat e tutti i borghesi ostili ad una rivoluzione economica popolare. Il loro dovere era di restare nelle vie, nei loro quartieri, col popolo — propagandisti ed organizzatori dell’uguaglianza di fatto, che volevano tutti, di provvedere col popolo al suo nutrimento, al suo lavoro, alla difesa della città: di vivere coi poveri, appassionandosi per le loro questioni di giorno in giorno, pei loro interessi, e di ricostruire, con loro, nelle sezioni, la vita sociale, evidentemente, contro il governo della Comune che rappresentava la borghesia giacobina, robespierrista, anti-comunista.
È possibile, anzi molto probabile, che, un terzo della Francia essendo investito dai tedeschi, il movimento della Comune, cominciato immediatamente dopo una guerra disastrosa, sarebbe stato vinto lo stesso. È appunto il pericolo, — la sorte, inevitabile, si potrebbe dire — di ogni movimento rivoluzionario che scoppia dopo una guerra sfortunata, — pericolo, che non si sarebbe presentato, se i rivoluzionari avessero affrettato nel 1869 un movimento contro l’impero, che crollava.
Ma, anche vinta, la Comune avrebbe potuto lasciare, almeno, alla posterità l’idea di una rivoluzione comunista, oltre alla rivoluzione comunalista o cantonalista…
In ogni caso, se dovessimo aspettare che la Rivoluzione, fino dalle sue prime insurrezioni, abbia un carattere francamente comunista, od anche collettivista, sarebbe come abbandonare per sempre l’idea di Rivoluzione. Perché fosse possibile, bisognerebbe che una forte maggioranza fosse già d’accordo per compiere un cambiamento comunista; — il che generalmente non è il caso, poiché è soprattutto lo svolgimento stesso della rivoluzione che può condurre le masse al comunismo, come ve le ha condotte nel 1793.
I nostri arrivisti borghesi e operai lo temono, comprendono essi pure che una rivoluzione popolare se dura spingerebbe il popolo al comunismo. Sanno che le prime insurrezioni popolari indebolirebbero il governo. Ma allora, si avrebbe il popolo nelle vie, — i proletari «indisciplinati» — e questi esigerebbero ben presto «l’eguaglianza di fatto». E qualora questo periodo di “anarchia” durasse, le idee comuniste si preciserebbero necessariamente e s’imporrebbero durante le agitazioni, con l’insegnamento stesso dei fatti reali.
Ora, è appunto ciò che non vogliono! Dei piccoli miglioramenti allo sfruttamento attuale, alcune concessioni, da parte degli sfruttatori, ed è tutto per loro. — «Più tardi, vedremo!» aggiungono, perché essi hanno bene il tempo di aspettare.
Ebbene, no! Dovessero i rivoluzionari perire nei primi sollevamenti popolari, è loro dovere di non restarsene in disparte. Se lo scopo che la loro intelligenza e il loro sapere hanno concepito è loro caro, saranno col popolo, coi contadini insorti nelle campagne, ed i proletari nelle città.
Non è che dopo aver scosso, fin nelle sue fondamenta, il governo e lo stato, che le idee anarchiche-comuniste potranno penetrare nelle masse e precisarvisi. È allora, soltanto, — i primi ostacoli della forza organizzata essendo stati rimossi, — che la vita verrà a porre i grandi problemi dell’eguaglianza economica ed indicherà i mezzi di risolverli. Allora soltanto, gli spiriti, fatti arditi dagli avvenimenti, potranno darsi coraggiosamente alla distruzione delle vecchie forme ed alla costruzione delle nuove forme della vita sociale.
Allora soltanto può svilupparsi la Rivoluzione che rappresenterà le nostre aspirazioni e risponderà ai nostri voti.
Non trascuriamo quindi le occasioni che ci offre il popolo coi suoi sollevamenti, per preparare questa rivoluzione. Aiutiamolo a fare i suoi primi passi. E basta con gli addormentatori.
[Cronaca Sovversiva, Anno VIII, n. 37 del 13 settembre 1910]