No copyright

Ciò che è di questo mondo ha un prezzo. Nulla sembra sottrarsi a questa legge imperativa. Qualunque cosa desideriamo, la dobbiamo pagare. Il copyright, la «riserva del diritto d’autore sulla riproduzione di un’opera» (libro, disco, programma che sia), è un chiaro esempio di come sia il denaro a scandire la nostra vita, a regolarla e ad orientarla.

Quando andiamo in libreria e acquistiamo un libro, sborsando una somma più o meno elevata, ne usciamo solitamente soddisfatti di poter godere un bene che riteniamo di aver liberamente scelto. Ma non è proprio così. La nostra scelta dipende dalle nostre possibilità economiche, dalla selezione di libri che qualcuno ha messo “a nostra disposizione”; qualcuno che a sua volta ha dovuto scegliere fra i libri che un altro ancora ha scelto per lui. Dunque il lettore è condizionato dalle scelte del libraio, che è condizionato dalle scelte del distributore, che è condizionato dalle scelte dell’editore.

Il risultato di questo iter non ha nulla a che vedere con il nostro “sapere” e la nostra “cultura”, ma solo col conto in banca dei tanti bottegai. In tutto ciò il copyright svolge un ruolo importante, determinando le scelte di un editore, il prezzo di un libro, la sua stessa presenza in libreria, fino alla nostra possibilità di acquisto. Serve cioè ad arricchire chi sfrutta un nostro desiderio: leggere un libro, ascoltare un disco o quant’altro. Come ogni proprietà, esso è un furto.

Da queste semplici considerazioni si potrebbe arguire che chi sostiene il copyright sia chi crede nella proprietà e nello sfruttamento e chi lo rifiuta si batta contro questo mondo basato sul profitto. Invece no. Basta darsi una occhiata attorno per accorgersi di come le carte si siano mescolate, al punto che oggi è possibile sentir criticare l’utilizzo del copyright da chi non ha alcun interesse a cambiare le cose, mentre lo si vede non di rado usare da chi avrebbe tutti i motivi per non farlo.

Ciò che permette a un reggicoda dell’esistente di sostenere l’abolizione del copyright è la mutazione del sistema di dominio che, dopo aver affidato per secoli la propria sopravvivenza alla conservazione dell’ordine delle cose, fa dell’innovazione la garanzia della propria perpetuazione. Il potere non rimane più attaccato con i denti e con le unghie al passato e alle sue forme, ma al contrario si riproduce aggiornandosi continuamente, preparando il futuro per poterlo controllare. Ecco spiegato come il copyright possa essere visto come un ostacolo al dinamismo del capitale, un intralcio alla circolazione di beni e di merci. Perché far pagare a uno schiavo le catene che lo imprigionano; non è più sicuro regalargliele, senza correre rischi?

Così, dietro alla richiesta dell’abolizione del copyright rivendicata da alcuni come “nuovo diritto sociale” si cela un’esplicita richiesta di efficienza, l’esigenza di fare andare avanti le cose senza perdere tempo, nella certezza che le perdite economiche che forse deriverebbero dalla scomparsa dei diritti d’autore sarebbero comunque ininfluenti rispetto ai vantaggi offerti — in termini di stabilità e di controllo sociale — dalla rapidità di diffusione delle merci. Non sappiamo se il capitale sarà tanto intelligente da rinunciare ad una fonte di profitto, trasgredendo una delle sue stesse regole fondamentali. Certo, la cosa ci appare piuttosto improbabile — considerando il fatto che una eventuale abolizione del copyright potrebbe costituire un pericoloso precedente — ma non impossibile.

Ma in fondo, anche se ciò accadesse, cambierebbe forse qualcosa per noi? Saremmo solo più “liberi” di produrre e di consumare merci.

Dove i furbi sostenitori dell’abolizione del copyright dimostrano la propria miseria, è nella richiesta che venga riconosciuto un “diritto sociale”. Rivendicare un diritto, qualsiasi esso sia, non costituisce forse un’ulteriore legittimazione dello Stato? Chi chiede diritto dice dovere. Diritti e doveri esistono quando esiste una forza esterna in grado di stabilirli, di amministrarli e di punirne la trasgressione: lo Stato. Questi democratici critici del copyright danno una mano in più al potere per aggiornarsi, indicandogli i suoi possibili punti deboli; anche utilizzando una fraseologia “radical”, non riescono comunque a nascondere la loro malafede, quando criticano il copyright mentre ne fanno uso a piene mani.

Ma, oltre ai servi che dicono di voler “abolire” il copyright, ci sono anche compagni che lo utilizzano tranquillamente. Ce ne siamo chiesti le ragioni e siamo riusciti a trovarne alcune:

a) una certa indolenza mentale che porta a riprodurre comportamenti altrui senza domandarsi il perché;

b) le segrete brame di chi in cuor suo auspica di veder riconosciute il proprio genio;

c) lo spirito del quieto vivere di chi, pur di non avere grane, è disposto a pagare, pagare, pagare.

Per parte nostra, il rifiuto che facciamo del copyright non lo riconduciamo ad una questione di diritto, ma di libertà. In altre parole lo combattiamo perché siamo intenzionati a demolire questo mondo e quindi le sue regole basate sulla proprietà, sul profitto, sul lavoro, sulla gerarchia.

Ecco perché chiunque può usare il nostro materiale, senza chiederci permessi di sorta, senza comunicarcelo e senza citare la fonte, proprio come faremo noi, infischiandoci di possibili multe o malumori.

Prendere ciò di cui si ha bisogno e ciò che si desidera, liberamente e gratuitamente, senza pagare e senza chiedere permessi.

 

[Da “Gratis – Catalogo in rivista”, novembre 1993]

 

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