Finita l’epoca della contrapposizione siamo entrati in quella dell’unificazione. Tutti assoldati sotto la stessa bandiera. Se una volta il mondo si orientava verso due opposte illusioni, che poi a ben vedere risultavano tutt’altro che divergenti fra loro, adesso, da ogni parte, si sentono sollecitazioni per unificarsi sotto il medesimo verbo comune. Basta con le chiacchiere: poche parole, chiare e definitive. Ognuno sappia quello che deve fare e di che cosa deve interessarsi.
Così un insieme informe e molliccio ha sostituito le ideologie “forti” di ieri. Possibilismo e flessibilità, incertezza e dubbio si sono installati al posto delle sicurezze di ieri, delle certezze ideologiche, che poi si trasferivano nei lager di diverso colore, tutti parimenti destinati all’ortopedia sociale, alla creazione, tramite la frusta, di un’umanità adeguata alle condizioni imposte dai rapporti di produzione.
Non c’è idea appena diversa che non venga subito ricondotta alle necessità del mercato. Quindi avvolta in cellofan multicolore e venduta all’ingrosso prima e al dettaglio poi. I grandi mezzi d’informazione esercitano un controllo indiretto del pensiero e concorrono a produrre opinione, macinando, e quindi annullando, ogni idea originale, ogni desiderio di “realmente altro”. Stupefacente il fatto che dietro la faccia del possibilismo si ritrovino intatte le antiche albagìe, le arroganze dei tenutari della dottrina, baroni del nulla, feudatari dei limiti della siepe, al di là della quale soltanto la paura dell’incognito frena la spinta delle masse debitamente tagliate fuori da ogni possibilità d’intervento.
Così, a livello mondiale, una ristretta minoranza di privilegiati utilizza, di fatto come se si trovasse racchiusa all’interno di un castello medievale, la propria potenza, costruendo un muro difensivo fatto di interessi e forze economiche, di linguaggio e scelte tecnologiche, che si pretende come universale, cioè come base per la crescita e il miglioramento comune, per la soddisfazione degli interessi della universalità degli uomini, mentre in effetti è soltanto un vallo difensivo, una barriera sempre più insormontabile, man mano che gli addetti ai lavori, schiavi essi stessi con la catena dorata, ma sempre solidamente inchiavardata agli interessi dei padroni, continuano a erigerla in altezza e in robustezza.
I centri di potere veri e propri sono oggi le grandi banche internazionali, le banche centrali di emissione, la commissione europea, i gestori degli accordi generali sulle tariffe doganali, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, ecc. I mezzi d’informazione che tengono legato questo potere e che ne trasmettono le direttive, traducendoli in pensiero e in azione programmatica, sono: The Economist, The Wall Street Journal, Financial Times, Far Eastern Economic Review, les Echos, l’agenzia Reuter, ecc. Gli uomini che lavorano, schiavi anch’essi, ma a condizioni di particolari privilegio, si trovano intruppati nelle università, dove una triste genìa di economisti si prostituisce a mezzo servizio; nei giornali, nelle riviste, dove soggiornano giornalisti buoni per tutte le salse, diffusori d’ignoranza e idiozia; nei partiti politici e nei sindacati, dove zombi affaticati riciclano parole d’ordine d’altri tempi, dando ad intendere alla grande massa degli spettatori di poter scegliere le proprie idee secondo i propri interessi.
L’economia politica sembra essere diventata la regina delle scienze. Dovunque, negli ambiti sopra indicati, si farnetica di previsioni e analisi, si studiano trend e numeri indici, si analizzano curve ed equazioni. Ogni direttore di banca centrale, come da noi il geometra Fazio, si sente un grande economista e appoggiandosi sulla propria riserva, cerca di dettare legge agli altri Stati in materia monetaria, come se fosse possibile dettare legge, che questo è semplicemente assurdo in materia d’economia, forse più che altrove. Il ridicolo in cui è caduta la manovra del tasso di sconto si può soltanto paragonare al ridicolo in cui si è da sempre trovato il concetto del reddito pro-capite. Se il capitalismo è la “condizione naturale della società”, come recentemente ha ammesso, senza ombra d’ironia, Alain Minc, questa condizione “naturale” è quella del ridicolo.
Riflettete per un attimo al concetto di mercato e vi ritroverete con nulla nelle mani. Che cosa corregge il mercato? Che cosa le sue fantomatiche leggi tendono ad appianare? Come possiamo conoscere le leggi del mercato e il mercato stesso? Moltissimi anni fa, i dubbi dell’economista francese Marchal li si esponeva a scuola, e i professori accettavano l’elenco delle perplessità con un’aria di sufficienza. Oggi, di quegli antichi, e sempre validi dubbi, non c’è traccia nelle sofisticatissime elaborazioni dell’ultima generazione di economisti.
Per qual motivo la concorrenza dovrebbe far migliorare le condizioni di vita della gente? Perché mai la competitività dovrebbe far crescere la produzione e non invece, semplicemente, favorire le imprese più grosse e meglio organizzate? Perché il libero scambio dovrebbe essere sinonimo di libertà, sia pure economica, se non esiste, da qualche parte nel mondo, una vastissima maggioranza di miserabili disposta a sopportare le conseguenze di questa cosiddetta libertà? Perché mai l’universalizzazione del sistema produttivo dovrebbe rendere migliore la condizione del lavoratore se non si realizza, parallelamente, lo svuotamento di ogni reale contrapposizione di classe nei conflitti sindacali? Perché la moneta forte dovrebbe essere fondamento della stabilità economica? Perché la privatizzazione dovrebbe garantire un miglioramento assoluti in termini sociali e non soltanto degli interessi diretti della minoranza dominante?
Ora, non c’è dubbio che nessun provvedimento economico può garantire qualcosa alla totalità degli uomini, ma solo ad una parte di essi. Il resto deve essere a disposizione per adeguarsi alle condizioni di vita ridotte e immiserite che vengono offerte. Eppure questa ineluttabile realtà viene coperta col manto ideologico del pensiero economico e scientifico contemporaneo, viene coperta e spacciata come la via per uscire da ogni ideologia e da ogni servitù.
Ancora una volta tempi tristi si profilano all’orizzonte.
[estratto da Canenero, n. 12, 1995