dal mensile anarchico Invece, n° 14 Aprile 2012.
II rapporto tra mondo universitario e apparato militare non è un fatto nuovo. Basta ricordare che all’origine delle rivolte studentesche degli anni Sessanta negli Stati Uniti vi fu la denuncia degli stretti legami tra la ricerca tecnologica di alcune università e la guerra nel Vietnam. Tuttavia, l’avvenuta trasformazione delle guerre ha portato a ridefinire e rinsaldare questo rapporto: quando la guerra perde il carattere di uno scontro tra eserciti nemici, e assume quello di un’azione permanente di polizia internazionale, diventando di fatto un’estensione brutale di pratiche di controllo e repressione tipiche della società civile, i confini tra saperi e istituzioni universitarie e saperi e istituzioni degli apparati militari diventano labili. Se la guerra è parte integrante della società capitalistica, il collegamento con l’Università assume un duplice ruolo: da un lato quello di fornire e affinare quell’insieme di conoscenze e mezzi necessari a un sistema sempre più complesso di produzione degli armamenti, dall’altro quello di contribuire alla legittimazione delle pratiche di controllo e gestione dei conflitti in un contesto di guerra permanente sia sul fronte interno che esterno.
In questo nuovo rapporto tra sapere accademico e potere militare – di cui il settore ITC (Information Technology) costituisce forse una delle espressioni più significative – un ruolo determinante assume lo sviluppo delle tecnologie high tech: indipendentemente dalle loro possibilità di utilizzo, dalla loro funzione o necessità immediata, questo tipo di sapere serve e ha degli effetti. L’insieme di questi studi non solo contribuisce all’avanzamento del campo scientifico ma, ad un livello teorico prima ancora che pratico, produce modi di vita, scelte di esistenza ed esperienza degli individui, plasmati, in prospettiva, sulle esigenze del dominio.
Per questo il dispositivo universitario va considerato non soltanto per ciò che concretamente produce in funzione disciplinare e di controllo (videsorveglianza, domotica, telerilevamento, etc.), ma anche in termini strategici, connessi ai rapporti di forze che determinano l’esistenza e lo sviluppo di specifici tipi di sapere. Perfettamente inserita nelle politiche di governance contemporanee si può dire che l’Università, nei diversi ambiti qui schematicamente riassunti, contribuisce fattivamente alla guerra, interna ed esterna. Allo stesso modo i processi di omologazione tra saperi tecnologici e apparati militari condizionano i modelli di divulgazione del sapere accademico e di gestione dell’Università.
Peacebuilding
Con la riforma universitaria del 2001/02 in Italia, ma nei paesi anglosassoni e in nord Europa già a partire dagli anni ’70, vi è stata una proliferazione di Corsi di Laurea, Dottorati e Master in Peacekeeping, Peacebuilding, Security Studies, Operatori di Pace (solo per citarne alcuni) che si presentano come percorsi formativi atti a fornire le conoscenze e le capacità necessarie a “costruire la pace” nei vari contesti di guerra. Sono dei corsi nei quali il mondo militare e delle forze dell’ordine da una parte e il mondo civile dall’altra entrano in contatto, collaborano e sono strettamente interconnessi. Spuntano come funghi Master finanziati dalle Forze Armate nei quali un certo numero di posti è riservato a polizia e militari, oppure corsi che vedono ufficiali e generali come insegnanti. Vi sono università che adibiscono una parte intera della loro offerta formativa alla formazione esclusiva di personale militare e di polizia (come per esempio nell’Università di Roma Tre). Tutte le congetture sull’utilità di questi corsi cadono per lasciare posto a delle certezze quando si scopre che vi sono dei Master che prevedono per gli studenti delle vere e proprie esercitazioni pratiche con l’esercito (per esempio all’interno del Master in Mediatori dei conflitti – Operatori di pace internazionali all’Università di Bologna in collaborazione con la Provincia Autonoma di Bolzano – dal 2004 a 2010 -, o l’esercitazione Celere Ferret – v. riquadro). Affinché le azioni militari in territori di guerra funzionino e raggiungano i propri scopi è fondamentale che la collaborazione e la convivenza tra civile e militare siano sempre meno ostacolate da perplessità e critiche e che siano il più oliate e rodate possibili.
Sul fronte interno l’obiettivo è lo stesso: il modo di operare all’interno dell’Università attraverso progetti e percorsi formativi che vedono collaborare civili a fianco di chi di mestiere esercita il potere con le armi per controllare e reprimere fa sì che le persone “comuni” si abituino a tale presenza, la giustifichino, l’appoggino. Dietro la strategia di far collaborare settore civile e apparato militare vi è la volontà di annientare ogni forma di conflittualità sociale e di dissenso più o meno radicale nei confronti delle forze dell’ordine e dell’esercito e di recuperare ogni forma d’incompatibilità sociale.
Ad ogni settore dell’Università i propri piccoli compiti. Alle scienze umanistiche quelli di:
– far credere che la società civile (si pensi al ruolo più o meno collaborazionista di varie ONG) possa riuscire ad influire positivamente sulle azioni militari (posto che anche se ciò fosse vero troverebbe il nostro completo disaccordo, ciò che avviene è proprio il contrario, cioè la progressiva influenza del militare sul civile);
– far percepire i conflitti e le guerre come fenomeni scatenati da ragioni d’incomprensione di tipo etnico e religioso (guardando le presentazioni e i piani di studio di questi corsi si nota come non si faccia mai riferimento agli interessi economica-politici in gioco);
– alimentare una vera e propria trasformazione culturale. Se all’interno del mondo accademico, come in altri ambiti, cultura militare e cultura civile convivono e per di più si contaminano reciprocamente, l’effetto è una mutazione culturale tout court, funzionale, tra l’altro, all’accettazione di quelle ricerche scientifiche che in ambito accademico sono collegate all’industria bellica. Uno sviluppo tecnologico che incrementa, sia a livello pratico che strategico, la potenza guerrafondaia, necessita di un determinato involucro sociale nel quale la cultura dell’oppressione e della repressione riesca ad annidarsi dentro di noi, «diventi principio logico, abitudine percettiva, modalità di porsi domande e del rispondersi» (Anita Raja in Postfazione a Cassandra di Christa Wolf, Edizioni e/o, 2011). La stessa divisione del lavoro su cui si basa questo involucro e che annienta la connessione visibile tra le funzioni sociali, si ripresenta anche nel mondo scientifico: «non c’è la (singola) multinazionale o la (singola) università che costruisca la nanoarma: ognuno fa la sua parte» (dichiarazione di Billy, Costa e Silvia davanti al tribunale penale federale di Bellinzona del 2011), ad ognuno spetta il proprio posto nella scala gerarchica e decisionale.
La scienza è una funzione ben determinata della pratica sociale ed «il processo di trasformazione scientifica non dipende dalla realizzazione di una logica interna, trascendente il complesso della pratica umana». La gestione della scienza è nelle mani della politica istituzionale; chi sostiene che la prima debba stare lontana dall’agire politico intende celare questo stretto legame o si nasconde dietro ad una pretesa tutta da scardinare: «il principio dell’etica professionale in base al quale è considerato disonesto introdurre la politica dentro le mura della cittadella della Scienza» (L’ape e l’architetto di Ciccotti, Cini, de Maria, Jona-Lasinio, Edizioni Bicocca, 2011).
Collaborazione tra Esercito Italiano e Università: l’esercitazione Clever Ferret (2005-2010).Clever ferrete è una delle esercitazioni militari più importanti dei una forza multinazionale denominata Multinational Land Force (MLF), una brigata trinazionalie italo-sloveno-ungherese costituita su iniziativa politica e militare alla fine degli anni ’90 e ufficialmente destinata, in qualità di Battle group, alla costituzione di un futuro esercito europeo. In seguito a una convenzione tra brigata alpina “Julia” – il contingente italiano che partecipa alla MLF – e università, dal 2005 in questa esercitazione sono coinvolti studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’università di Trieste (polo didattico di Gorizia). Agli studenti sono affidati compiti di consulenza per quanto riguarda l’analisi di aspetti politici e legali, con particolare riferimento ai rapporti con le organizzazioni internazionali. In perfetta linea con il modello israeliano, che prevede l’inserimento di esperti esterni a supporto delle forze armate durante lo svolgimento delle operazioni militari, con il 2010, e per la prima volta in ambito italiano, questi studenti universitari sono coinvolti direttamente nelle attività di esercitazione sul campo, nella prospettiva esplicitamente dichiarata di collaborazione nelle missioni internazionali.
Telecomunicazioni e sistemi integrati
La comunicazione telematica e vitale per il funzionamento dell’attuale sistema di guerra. Provate a pensare una guerra con truppe d’occupazione senza un sistema radiofonico protetto, senza la copertura satellitare, senza i sistemi di localizzazione, senza i sistemi integrati – in definitiva senza ripetitori ed antenne militari, costellazioni di satelliti, sistemi di sensori wireless (WSN): sarebbe fallimentare. Invasioni ed occupazioni, che necessitano di continui monitoraggi e pattugliamenti di territori “ostili” (città, villaggi, campagne e montagne), sarebbero oggi impensabili senza un efficiente sistema di telecomunicazione sicura e protetta. D’altro canto per il controllo della popolazione l’isolamento e la selezione della comunicazione a seconda del contenuto trasmesso (attraverso l’oscuramento del canale telematico) sono una strategia di controinsurrezione: si è visto in Egitto, quando, durante la rivolta, gli unici SMS a passare erano quelli favorevoli a Mubarak.
Abbiamo individuato nel gruppo di ricerca Eledia (Diagnostica Elettromagnetica) dell’ateneo di Trento, diretto da Fausto Giunchiglia, il maggior esempio locale di laboratorio universitario che, con la sua assidua collaborazione con Selex-Finmeccanica, fornisce attivamente servizi all’industria bellica, quindi alla guerra. Oltre alle conoscenze tecnoscientifiche, scambiate attraverso seminari, consulenze e insegnamento, gli elementi materiali del sistema di guerra sviluppati nel laboratorio sono: prototipi di applicazioni militari come il puntatore a microonde elettromagnetiche in grado di “vedere” corpi attraverso i muri (già in commercio), i cooperative robotics (minirobot utilizzati per l’esplorazione di “ambienti ostili”), macchinari per l’individuazione tramite imaging di materiale esplodente (uxe detection). L’integrazione dei sistemi – che i vari laboratori stanno sperimentando a più livelli (agronomico, biologico, sociale) – funziona anche nel campo militare e poliziesco: il programma di digitalizzazione dell’esercito italiano (SIACCON, SICCONA, Soldato Futuro) e le telecamere di nuova generazione sono solo gli esempi più recenti dell’applicazione della teoria cibernetica al sociale. In questi laboratori si teorizzano e sperimentano applicazioni poliziesche come le videocamere in grado di ridurre i corpi in silhouette e segnalare ad una centrale operativa quei comportamenti che, confrontati con movimenti standardizzati attraverso algoritmi, risultano anomali.
Urbanistica e domotica
N ella disamina dei settori di ricerca con applicazione in ambito repressivo si tende spesso a trascurare un aspetto cruciale quale la pianificazione del territorio e la “costruzione” dell’ambiente in cui quotidianamente siamo confinati. Gli strateghi della controinsurrezione su questo si mostrano alquanto più avveduti, prova ne sia lo studio “NATO Urban Operation 2020” (interamente dedicato a delineare un tutt’altro che ipotetico scenario di impiego degli eserciti in contesto urbano). Dall’altra parte della barricata un notevole contributo di critica pratica allo spazio urbano è venuto, nel recente passato, dall’ondata di rivolte e insurrezioni che hanno attraversato l’Europa e il Mediterraneo: i rivoltosi si sono ripresi le strade progettate per il passaggio della polizia e hanno liberato (temporaneamente) la città dai dispositivi di controllo che ad ogni angolo spiano i nostri movimenti. La progettazione del territorio costituisce, fin dai tempi di Haussmann, una soluzione tecnica a “problemi” sociali (nella Parigi napoleonica la deleteria combinazione di grandi masse di diseredati tendenti alla rivolta e angusti vicoli medievali ostacolava il movimento delle truppe controinsurrezionali). Sempre più l’urbanistica del controllo gioca un ruolo di primo piano nel delineare politiche di gestione securitaria del territorio. La ricerca accademica torna a dare il suo contributo. Il Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio dell’Università di Firenze ha condotto varie ricerche nel campo della sicurezza urbana (Sicurezza dei cittadini e vita quotidiana, Pianificazione, urbanistica e sicurezza urbana, Per una città sicura, etc). L’Università di Urbino ha ospitato, su proposta del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana, un Master in Management delle politiche integrate di sicurezza. Fra le materie proposte troviamo “Marketing della polizia: polizia di prossimità” e “Legislazione regionale e diritto degli Enti Locali su sicurezza e polizia locale”. Presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano opera il Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza, che ha collaborato alla stesura della normativa europea CEN TR/14383-2 “Prevenzione della criminalità e del disordine attraverso urbanistica e progettazione degli edifici”: la pianificazione del territorio deve «facilitare il lavoro delle forze dell’ ordine» con l’obiettivo di «rafforzare la sorveglianza spontanea con la sorveglianza organizzata (polizia)”» (indirizzo web documento, clicca qui).
Il settore della domotica (scienza che si occupa dell’ applicazione di sensori e tecnologie di automazione all’ambiente domestico e, in generale, antropizzato) si segnala, oltre che per la sua rilevanza in vista di un controllo tecnologico sempre più pervasivo (dalla pianificazione territoriale alla “pianificazione comportamentale”), per l’odiosa pratica di sperimentare i propri ritrovati su fasce sociali deboli ed isolate: anziani e “disabili”. Presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trento troviamo il CunEdI, Centro Universitario Edifici Intelligenti, che negli anni ha sviluppato una “casa educativa” dotata di sistemi domotici tali da «affidare all’abitazione il compito di sviluppare le capacità organizzative della persona, presupponendo una risposta attiva alla segnalazione di anomalie, allarmi o ritardi nell’adempimento di attività prefissate». La casa è disseminata di sensori ambientali che la rendono in grado di “reagire” in caso di comportamenti “anomali” o qualora non vengano svolte determinate operazioni, inoltre 1`utente” si interfaccia costantemente con uno schermo che gli segnala le sue “mancanze”, che vengono comunicate in tempo reale ad un “centro di controllo”. Il potenziale coercitivo che deriverebbe da un’applicazione di tali tecnologie è facilmente immaginabile; la somiglianza con 1984 di Orwell è decisamente indicativa. Gruppi di ricerca dediti allo studio della domotica sono presenti all’interno di vari dipartimenti di Ingegneria (ambiti affini sono inoltre la meccatronica e l’ingegneria dell’automazione).
Telerilevamento
I1 telerilevamento è un sistema di tecnologie che sfrutta in modo combinato sensori di diversa natura (ottici, radar, laser), sistemi satellitari e tecniche di elaborazione di segnali ed immagini al fine di fornire informazioni relative all’ambiente e al territorio. Un settore, quindi, dalle molteplici ricadute e campi di applicazione (principalmente monitoraggio e controllo). Il laboratorio di Telerilevamento (Remote Sensing Laboratory – RS Lab) è un gruppo di ricerca del DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienza dell’Informazione della Facoltà di Ingegneria di Trento) che si occupa principalmente di analisi dei dati prodotti da missioni satellitari per il controllo dei territori su scala locale, nazionale e continentale. In particolare il gruppo, coordinato da Lorenzo Bruzzone, s’inserisce in un filone di ricerca legato allo sviluppo di metodologie e strumenti utili all’analisi di immagini telerilevate multitemporali, ossia acquisite sulla stessa area geografica in momenti temporali diversi e, possibilmente, sempre più ristretti (analisys of multitemporal imaging). Il gruppo Rs Lab – che in un articolo del 2008 firmato da Bruzzone auspicava l’utilizzo delle immagini telerilevate al fine di documentare le violenze governative sulle popolazioni del Tibet e l’anno successivo firmava una convenzione per collaborare attivamente al progetto COSMO-SkyMed ed altri progetti legati al “monitoraggio e la sicurezza europea” (in particolare il progetto di controllo delle frontiere denominato LIMES) – è un esempio di come l’ideologia pacifista, sotto le vesti della pretesa “neutralità” scientifica, possa convivere con progetti di natura militare.
COSMO-SkiMedNegli ultimi anni in italia si è registrato un notevole incremento di finanziamenti pubblici e privati per progetti di ricerca nel campo di telerilevamento da collegare certamente alla progettazione di COSMO-SkiMed. Si tratta di un mastodontico programma italiano di osservazione satellitare terrestre concepito per scopi duali (civili e militari), promosso dal Ministero della Ricerca e finanziato da Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e Ministero della Difesa. Questo progetto è operativo dal 2011, data di lancio dell’ultimo dei 4 satelliti interamente progettati e realizzati coinvolgendo aziende controllate da Finmeccanica, in particolare Thales Alenia Space, che si è occupata anche della realizzazione del sistema terrestre per la gestione dei dati. COSMO-SkiMed è costata finora 1.137 milioni di euro e recentemente è al centro di un’inchiesta riguardante la gestione delle infromazioni provenienti dal monitoraggio satellitare, per la parte militare ufficialmente affidata allo Stato maggiore della Difesa, ma di fatto gestita da una struttura di intelligence militare denominata RIS e svincolata dal controllore di organismi parlamentari.