Affacciandosi alla comprensione di se stessi, e degli altri, si scoprono aspetti della conoscenza spesso insospettabili. Quando avviciniamo un problema da noi poco conosciuto, o una persona che ci è ignota, proviamo un senso di panico (o di piacere, sottile differenza mai del tutto chiarita). Riusciremo a venirne a capo? ci chiediamo. E la risposta non è sempre positiva.
Il più delle volte guardiamo lo “straniero” con sospetto, col sospetto che sempre ci viene dalla differenza non ancora codificata. Cosa ci porterà lo “straniero”? Di certo delle novità, e queste come saranno? Potranno essere buone o cattive, comunque turberanno i nostri equilibri, i sonni (e i sogni) che spesso facciamo tra un brusco risveglio e l’altro.
Da qui la necessità di non scoprirci più di tanto. I confini del nostro mondo personale, il nostro mondo quello che siamo disposti a difendere fino alla morte, perché è di esso che ne va quando rischiamo l’avventura dell’ignoto, questi confini si irrigidiscono e propongono uno schema interpretativo. Lo “straniero”, uomo o problema non fa differenza, viene così catalogato nell’ambito dei nostri schemi, diluiamo la forma nella struttura, la comprimiamo a forza, pretendiamo che l’altro si adegui alle nostre necessità. Così, dopo averlo ucciso, in modo rituale per quel che possiamo e nell’ambito delle nostre capacità di uccisori, lo riproduciamo adatto ai nostri scopi, perfino a continuare ad alimentare i nostri pruriti, sogni e sonni compresi.
Così alcuni di noi, e non certo fra i peggiori, senza accorgersene, si avvolgono nel bozzolo delle codificazioni, giudicando o sospendendo il giudizio. Ma questa sospensione, nella pratica giornaliera, si traduce sempre nel lasciare che l’altro si collochi da sé nell’ambito delle nostre prospettive, senza ribellarsi e quindi senza bisogno che noi gli si faccia violenza. Il comune senso del ridicolo aiuta in questi casi a rintracciare sintonie che altrimenti si rivelerebbero come inesistenti.
Non urlare, per favore, il tuo disprezzo per l’ordine, basta che mi dimostri che il tuo modo di vivere segue una logica del qualitativo, vivace, danzante, e non l’impegno della routine della quiete e del codice. Ma dimostramelo con concatenazioni logiche, accurate. Per favore, dimmi che sei pazzo, come lo sono anch’io, ma dimmelo con chiarezza. Parlami, per favore, dello spaventoso brivido delle tenebre, ma parlamene alla luce del sole, che io possa vederlo, qui e subito, raffigurato nelle distinte favelle cui sono stato educato.
Confortami con le tue nenie sulla distruzione, esse sono dolce ninna-nanna per i bisogni del mio cuore, ma parlamene in maniera ordinata, che io possa capirle, e con esse, grazie ad esse, capire cos’è la distruzione. Insomma, che le parole mi arrivino ben organizzate tra loro, guai se ti mettessi ad urlare, non ti ascolterei più. Distruggere va bene, ma con l’ordine che la logica impone. Altrimenti andiamo nel caos dell’irripetibilità, dove tutto svanisce nell’incomprensibile. Sì, d’accordo, qualcosa mi arriverebbe anche attraverso il vociare imbarazzante d’un mercato algerino in un giorno di festa, ma io non sono abituato a quella vita, alla danza imprevedibile e fugace, all’improvviso apparire dello “straniero”, bisogna che tu metta davanti a me il codice dell’abitudine, che il linguaggio si faccia carico d’intermediarietà. Parlami, ti prego, che la parola diventi per me il cordone ombelicale col mondo del di già accaduto, che niente si presenti come l’essere gettato improvvisamente nell’oscura dimensione del caos.
Parlami d’amore, del tuo amore, per me, di ogni amore possibile, anche del più remoto e difficile da capire, della violenza che gli cammina a fianco, della violenza e della morte, ma parlamene, quindi fammelo vedere con gli occhi della mente, prigioniero, catturato nel tessuto limaccioso e corruttibile delle parole. parlamene cautamente, te ne prego, che il mio cuore possa sopportarne il contraccolpo. Poi ci farò l’abitudine. E, proprio per avermene parlato, l’amore mi diventerà familiare, e lo porterò con me dappertutto, come si porta un coltello in tasca, un oggetto pensante che fornisce sicurezza. Di quell’altra possibilità, dello “straniero” che mi si era presentato davanti agli occhi, improvvisamente, come un ladro nella notte, non me ne fare più cenno, abbandona l’alto urlo nella notte che potrebbe ancora parlarmene.
Parlami della società del futuro, dell’anarchia, in cui tu e io crediamo, descrivimi le sue condizioni d’incertezza, l’imprevedibilità dei rapporti fra esseri umani finalmente liberi da ogni costrizione, raccontami con le tue parole calme, suadenti, il ribollire delle passioni che si scateneranno, l’odio e il desiderio di distruzione che non scompariranno da un giorno all’altro, la paura e il sangue che non smetteranno di serpeggiare e correre nelle vene d’una società finalmente differente da ogni incubo del passato. Parlamene, te ne prego, ma fallo in modo che non mi metta paura, parlamene ordinatamente, raccontami di quello che faremo, tu e io, e gli altri, e i compagni, e coloro che compagni non sono mai stati ma che da un momento all’altro capiranno, tutti insieme, per costruire, qualcosa qua, qualcosa là, a poco a poco, mentre tutt’intorno la vita, la vera vita intendo, comincerà a rifiorire. Ma parlamene con la logica della comprensibilità. Non mi urlare nell’orecchio quello che ti urla dentro, mi metteresti paura, tienilo per te. Tieni per te il bisogno di distruggere, forse di continuare a distruggere. Tieni per te le difficoltà di coordinarti con i miei bisogni, con le mie idee. Tieni per te l’irriducibile forza che ti porta lontano da ogni accettazione delle mie volontà, volontà, la tua, insopprimibilmente avversa ad ogni codificazione, come la mia, per altro. Non mi dire tutte queste cose, finiresti per farmi paura.
Ti prego, non darmi altre preoccupazioni.
[da Canenero, n. 28, 1995]