Non volendo fare distinzioni di sorta, avendo dato spazio ad una risposta ai tentativi di infiltrazione da parte della repressione mediatica, stavolta diffondiamo dei testi (dei quali non condividiamo necessariamente tutte le sfumature, come capita anche per altri testi che traduciamo e diffondiamo) che controbattono alla puntuale riemersione di atteggiamenti inquisitori insiti all’interno del fantomatico “movimento”, la cui necessità è stata fortunatamente messa in dubbio alcuni mesi fa da diversi compagni inglesi.
Il carcere nel cervello…
E’ oramai chiarissima l’intenzione, da parte dei media, di dare più eco al rumore che causa il ferimento ad una gamba di un dirigente dell’Ansaldo Nucleare che le migliaia di vittime che negli anni il nucleare stesso ha provocato, anche per colpa di gente come Adinolfi. Si chiede a voce forte l’intervento dell’esercito, ma questo non ci meraviglia. La stampa nazionale, ed i media tutti, sono da sempre la voce dei partiti e delle questure. In un clima che inizia a riscaldarsi la voce del governante di turno, del politico o del questurino si alza attraverso le pagine dei quotidiani cercando di creare un clima di terrore generale che possa togliere l’attenzione dagli avvenimenti che stanno caratterizzando questo ultimo anno il “bel paese”. La cosa più preoccupante non sono tanto i quintali di porcate scritte da pennivendoli con il tappo nel cervello e l’inchiostro nelle vene, ma alcune risposte che arrivano da chi della repressione ne è vittima quotidianamente. Incancreniti nel corpo e nelle idee ad ogni colpo si risponde con il piangersi addosso, assemblee, volantini, di mettere “i puntini sulle i” e il tentare di riorganizzare “unità” che mettono più brividi delle inchieste stesse. Non c’è fiacchezza nelle risposte perché non esistono le risposte stesse; almeno quelle di movimento mentre quelle individuali fortunatamente arrivano spesso. Si parla di distruzione delle carceri ed i primi carcerieri delle nostre idee siamo noi stessi. Ci sono tante cose che hanno sempre bloccato la crescita del “movimento” anarchico da quando si è stabilizzata una certa “pace sociale” creato anche da un anarchismo vecchio. Una su tutte la capacità, o la paura, di autocritica; la seconda è la coordinazione tra “pensiero e azione” che dovrebbe essere spontaneo e non “ ricercando una coerenza”; il pensiero stesso della ricerca di una coerenza è un cancello, un paletto…un ostacolo. Pensare di essere coerente con le proprie idee è la prima forma di “carcere” che creiamo in noi stessi; chi crede seriamente nelle proprie idee si comporta di conseguenza senza sentire alcun peso. Le carceri costruite intorno alle nostre idee devono essere le prime ad essere abbattute se si vogliono abbattere quelle di cemento armato, sbarre e vegliate da cani da guardia in divisa. La “paura” è un sentimento naturale e non deve essere visto come segno di debolezza sia da parte di chi se la vive sia da parte di chi “paura” ne ha di meno. Sentir parlare, e leggere, gli anarchici, oggi, con frasi dell’800 fa venire i brividi; pensare di applicare tesi e concetti, concepiti un secolo fa, serve solamente a far crescere le ragnatele intorno al cervello. “Il culto dei morti ha, sin dagli albori, frenato l’evoluzione degli uomini. Esso è il “peccato originale”, il peso morto, la palla che l’umanità trascina con sé”(A. Libertad). Come ricordavano alcuni compagni in un documento, il movimento anarchico non è, e non deve essere, un movimento che da spettacolo tantomeno terreno fertile in cui immaginari filosofi dell’insurrezione si fanno spazio con la buona dialettica. “Pensiero e azione”: questo deve essere l’anarchismo, queste devono essere le risposte! La solidarietà deve essere un’arma e non solamente un semplice termine scritto. Le modalità su come portare avanti le singole lotte le decide il singolo individuo, ma bisogna tenere ben presente che le lotte stesse non si fanno con l’inchiostro e fiumi di parole; l’insurrezione non è una teoria dettata da professorini o filosofi e l’anarchismo non è una fede in cui si confondono le sedi, le sedie e i drappi neri con le chiese, inginocchiatoi, e crocefissi. I “calamai” non ci sono più, le “penne” non si usano quasi per niente, di “parole” se ne sono fin troppo sprecate ed i “pugnali” raramente avranno la meglio sulle pistole. La libertà non è mai stata regalata a nessuno; non è mai stato un pensiero, ma il sentimento più alto a cui un individuo dovrebbe aspirare…ed ottenere in qualsiasi modo con qualsiasi mezzo che si ritiene necessario contro chi, da sempre, ci ha messo un guinzaglio al collo e le catene a mani e piedi.
SOLIDARIETA’ A TUTTI GLI ARRESTATI COMPLICITA’ CON I COMPAGNI ANARCHICI!
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A chi non si dissocia…
Leggendo quel tristissimo documento che è uscito fuori, ahime, proprio dalla città in cui vivo è opportuno fare qualche ulteriore precisazione, tanto per non finire , e parlo a titolo personale, nel pentolone dei dissociati genovesi.
Ciò che balza subito agli occhi e successivamente al cervellino è il motivo per cui dei pseudo-compagni abbiano l’esigenza di scrivere un documento che probabilmente neanche Don Gallo con tutta la comunità di San Benedetto sarebbe riuscito a partorire. Un documento che prende in considerazione solo l’azione a quel pezzo di merda di Adinolfi, come se non si meritasse una pallottola in una gamba, e parla di qualche mortaretto spedito qua e la come il male assoluto. Forse vi sentite toccati? La risposta è si, non penso che nessuno vi spii a parte i soliti diciamo, ma la paura di sentirsi giudicati è più forte di voi, forse siete voi i primi a pensare che non fate abbastanza, ma non lo volete ammettere, e per questo vi sentite chiamati in causa e con la coda in mezzo alle gambe cercate giustificazioni sul vostro essere anarchico. Nostalgici!? Ma se oggi voi sputate bile verso chi compie un azione, condivisibile o meno, cosa avreste detto nel 1900 quando un certo Gaetano Bresci ammazzava il vostro tiranno: pistolero incallito ? E cioè avreste preso la posizione di tanti “anarchici cooperativisti” che condannarono il gesto. Per non parlare di quel compagno che sparò a Errico Malatesta a un convegno negli Stati Uniti: subito alla forca, immagino. Per voi le armi sono un tabù, ma come pensate di poter reagire a tutti i soprusi che quotidianamente vengono perpetrati da chi le armi le usa veramente e continuatamente? Conoscendo alcuni di voi che hanno formulato quello schifo di documento, so che siete (almeno alcuni di voi) dei non giovani per non dire vecchi più o meno quanto me, ma la differenza tra me e voi, è che io penso in un futuro dove ste seghe mediatiche i compagni a venire non se le faranno più, perchè avranno da uscire realmente per strada, non come noi che aspettiamo la chiamata alla mobilitazione generale. E poi……..ma perchè non mettere i nomi dei firmatari e non alcuni, forse, anarchici o forse libertari o forse individualità genovesi ? Abbiate il coraggio delle vostre azioni perchè i compagnie le compagne genovesi non devono, ogni volta che escono da sta città del cazzo, dare spiegazioni su chi ha scritto quel documento o meno. Penso che comunque il vostro obiettivo l’avete ottenuto, ed era quello di innescare un dibattito, ma secondo me, prima ancora di far partire una discussione di questo tipo, voi avete pensato a dissociarvi per pararvi il culo. In giornate come queste a Genova dove si vedono tipi loschi a ogni angolo di strada, dove i giornali pubblicano veline della questura, minacciano perquisizioni ovunque in città, uscire fuori con un documento di quel tipo vuol dire io non c’entro. Mi ricorda il gioco del buono e del cattivo……..da che parte della barricata state ? Forse come dite voi dall’altra ! Io non mi dissocio, avrei preferito dirglielo direttamente agli sbirri nel caso fossero venuti a casa per l’ennesima perquisizione, ma voi mi costringete a prendere una posizione ORA, per non essere confuso con gente che ha la coda di paglia e che magari parla di un occupazione come il massimo obiettivo da raggiungere. Tanto e tanto altro bisognerebbe dire, ma penso sia chiara la mia posizione e quindi mi fermo qui.
INDIVIDUO Carlo di Genova più o meno!
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In questa città di Genova pare che esistano, quantomeno virtualmente, alcuni libertari e qualche anarchico, occasionalmente(?) cittadinisti, che sentono e manifestano la loro paura di essere colpiti dalla repressione.
Accampando pretestuose motivazioni metodologiche ed etiche hanno ben pensato di prendere preventivamente le distanze, come in una partita di scacchi si anticipa le mosse del nemico, dissociandosi (senza peraltro, che nessuno li avesse ancora associati).
Nel loro scritto sono preoccupati delle indagini che la questura svolge a loro carico ed esaltano le loro gesta pubbliche e collettive nei vicoli genovesi. Vivono la frustrazione di non essere riusciti a svegliare quel tanto osannato sociale e sentono l’esigenza di disprezzare azioni altrui. Sentono l’esigenza di chiarire (agli inquirenti?) che stanno combattendo su un altro lato della barricata. Lo fanno in un momento strategico, adesso che qualcosa succede nella “loro” città e non molto tempo fa quando, per loro stessa ammissione, sarebbe stato utile.
Non pensiamo ci possa essere alcun dibattito portato avanti con chi si “difende” con meschine dissociazioni, solo che si chiamino le cose con il proprio nome e una dissociazione non diventi un “mettere i puntini sulle i”.
I soliti due rompicoglioni
Genova 17/05/2012
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Uno spunto di riflessione
[…] Nel movimento anarchico internazionale l’uso della violenza ha sempre creato divisione, e sollevato vespai di polemiche spesso accompagnate da scomuniche, che in certi casi sono sfociate addirittura nella delazione. Tuttavia le divergenze nascono sui tempi e sui modi, né da una parte né dall’altra infatti si è mai arrivati a escludere in termini categorici il ricorso alla violenza. Ma questa impostazione del problema non fa che accrescere la confusione. Chi decide, e con quali criteri, della bontà dei tempi e dei modi nell’uso della violenza? C’è chi sostiene che soltanto in una situazione preinsurrezionale, con le masse sul piede di guerra, ha senso utilizzare la violenza. Sarà anche vero. Ma non mi sembra che ci sia qualcuno in grado di stabilire con assoluta certezza, quando una situazione è preinsurrezionale e quando invece non lo è. E poi trovo assurda, autoritaria, ridicola, questa pretesa di voler annullare l’individuo per sottometterlo alla “volontà popolare”, a questa astrazione che richiama alla mente la “volontà di dio”. Se voglio compiere un’azione individuale, non vado certo a chiedere il permesso alle masse. Anche perché non mi risulta che le masse abbiano preso accordi con gli anarchici sulla data della rivoluzione. Né mi risulta che lo Stato abbia momentaneamente rinunciato alla sua violenza scientificamente organizzata affinché gli anarchici abbiano il tempo necessario per riuscire a convincere le masse a sollevarsi. E allora sta a noi – soltanto a noi – decidere quando e come colpire il nemico, quando e come rispondere agli attacchi dello Stato. Perché l’oppressione e lo sfruttamento sono un dato costante, non occasionale. E non basta una maschera democratica e permissiva a celare questa realtà, e a far dimenticare che una minoranza criminale che detiene il monopolio della violenza, ha potere di vita e di morte su tutti noi. Confesso che faccio sempre più fatica a comprendere le ragioni della divisione esistente nel Movimento sulla questione della violenza, non foss’altro perché non conosco nessun anarchico critico su questo punto, che nell’esercizio della violenza verbale non sia bravo e feroce almeno quanto coloro che non la pensano come lui. Ma chi spara a zero contro padroni, politicanti, giudici, sbirri, preti, scienziati e quant’altro, deve essere cosciente anche del fatto che c’è sempre qualcuno che lo prende alla lettera e agisce di conseguenza. Chi soffia sul fuoco poi non può cavarsela dicendo “è stato tutto uno scherzo”. Perché nella violenza verbale, è bene che si sappia, è implicito il suggerimento a colpire le persone e le cose di cui si fanno i nomi. In caso contrario, la scrittura e le parole diventano un surrogato dell’azione; uno sfogo alle proprie frustrazioni; un inno cantato a squarciagola alla propria impotenza. Ma io non voglio pensare che la violenza verbale che tracima da tutti i giornali anarchici esistenti sia soltanto un fiume di bile sulle cui acque galleggiano anime morte. Una cosa però deve essere chiara: i discorsi queruli contro chi fa uso della violenza, fatti da coloro che amano cimentarsi solo nella violenza verbale, sono fastidiosi e meschini, e fanno sorgere negli altri il legittimo sospetto che siano dettati soltanto dall’istinto di conservazione, lo stesso che spinge a decretare l’isolamento nei confronti di coloro che hanno posizioni ritenute devianti e pericolose rispetto alla “linea” del movimento ufficiale. Ma costoro evidentemente non sanno che esiste anche un modo intelligente, ed eticamente ineccepibile, di dissentire con chi si serve anche della violenza. Basta tacere. Ecco tutto. Così non si corre nemmeno il rischio di cadere nella delazione, che tale rimane anche quando la si vuole far passare per “posizione diversa”. Intendiamoci bene. Non sto dicendo che chi non approva l’uso della violenza nei tempi e nei modi che secondo lui sono sbagliati, deve astenersi dal manifestare pubblicamente questa sua opinione. Ma una cosa è esprimere i motivi del proprio dissenso in maniera ragionata e perfino polemica, altra cosa è dissociarsi pubblicamente, attraverso comunicati da cui traspare la presunzione di sapere quando è giusto ricorrere alla violenza, e scritti con l’aria di chi sembra aver preso appuntamento con la Rivoluzione. Ma cosa c’è che non va nell’avere un’opinione diversa da chi si serve di metodi che non si condividono e manifestarla pubblicamente?, osservò una volta un compagno, per niente stupido. Benedetta ingenuità! La dissociazione non è mai “un’opinione diversa”. Perché se è vero che gli sbirri non possono sapere tutto di tutti, perché per fortuna ancora non sono arrivati a leggere nel pensiero, è anche vero che, grazie al loro normale lavoro di investigazione e di controllo, e grazie alla lettura dei nostri giornali, hanno acquisito una conoscenza abbastanza chiara e precisa, sia sulla natura dei rapporti e dei contatti tra i gruppi e le individualità operanti nelle diverse realtà di movimento, sia sul modo di porsi degli stessi rispetto all’uso della violenza. Cosa c’entra questo col discorso che stiamo facendo? C’entra, c’entra… Se in una qualsiasi città viene compiuta un’azione rivendicata da anarchici e qualcuno fa un comunicato di dissociazione, per le ragioni di cui sopra, ciò equivale a dire alla polizia: “Non siamo stati noi, andate a cercare dall’altra parte…”, vale a dire tra quei gruppi e individualità che non si dicono contrari alla violenza. Come si vede, si può essere delatori anche in buona fede. Ma chi lo fa si assume comunque una grave responsabilità: quella di dare i compagni in pasto alla repressione.
Antonio Gizzo [testo tratto da: “The Angry Brigade, 1967 – 1984. Documenti e cronologia”, Edizioni “Il Culmine”/GAS – Infinita, aprile 1995, s.l.]
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La stura
Dare la stura significa «sturare, levare il tappo e lasciare che il liquido scorra. In senso figurato significa dar libero sfogo a parole, versi, ingiurie…». È questa l’impressione che si ha alla lettura dei numerosi comunicati di condanna e di distinguo dagli attacchi, avvenuti nelle scorse settimane, contro uomini e strutture del dominio. Che sia stata data la stura. Come se fino ad ora il rifiuto di differenziarsi agli occhi della repressione, il disprezzo verso coloro che vogliono farsi passare per “bravi ragazzi”, magari un po’ scapigliati ma tutto sommato bonaccioni, non fosse affatto una spontanea e naturale manifestazione del proprio essere, della propria individualità, delle proprie scelte di vita, ma unicamente una imposizione ideologica a cui ci si sentiva costretti a sottostare. Una specie di precetto astratto, di ricatto morale da sopportare, spesso a denti stretti, con mal celata pazienza. E, come è noto, anche la pazienza ha un limite.
Questo limite è stato superato con il ferimento (da parte di anarchici) dell’amministratore delegato della Ansaldo Nucleare a Genova, e con le molotov (anonime) alla sede degli strozzini istituzionali di Equitalia a Livorno. Ora basta! — si sono detti in molti — non staremo più zitti, ma prenderemo la parola per esprimere chiara e forte la nostra estraneità! Soprattutto se tutto ciò accade accanto all’uscio della propria casa. Così, da un silenzio evidentemente sofferto come omertoso si è passati d’un tratto ad un rumore considerato virtuoso. A quanto pare l’etica — quell’etica tanto decantata dagli anarchici — non era che un “tappo” contro cui si stava ammassando e premeva il liquido merdifico, lo sfogo rancoroso della dissociazione. Dissociazione non da una organizzazione a cui non si è mai partecipato, naturalmente, ma da una certa pratica dell’azione diretta: quella che non ha bisogno di venir legittimata da nessuna approvazione popolare.
Se a Genova è stata la rivendicata violenza contro un uomo in carne ed ossa a dare (pretesto di) scandalo, a Livorno è stata l’anonima violenza contro le cose. Ciò dimostra come sia l’idea stessa della possibilità di attaccare lo Stato al di fuori di un contesto allargato, collettivo, condiviso, ad essere considerata una aberrazione da stroncare con ogni mezzo. Non ce ne meravigliamo affatto. È solo un passaggio della china intrapresa dal movimento. Del resto, quando si va ripetendo a martello che nelle lotte si parte insieme e si torna insieme, quando s’impone l’alternativa secca fra la condivisione e lo Stato, quando si tenta in ogni modo di coniugare rivolta e politica, è inevitabile che prima o poi l’azione individuale si trasformi in qualcosa di controproducente da cui distanziarsi (o, per i più imbecilli, di losco da denunciare).
È peraltro assai probabile che chi ha dato la stura non si sia reso nemmeno ben conto delle conseguenze di quanto andava facendo. Forse pensava di allentare soltanto la pressione, di dare sfogo per un attimo alla propria irritazione al fine di potersi contenere più a lungo in seguito. Non è così. Il tappo, una volta smosso, è saltato del tutto. Un flusso di merda e bile sta schizzando fuori impetuoso, appestando l’ambiente e contaminando gli animi. Facile immaginare la soddisfazione di chi ha lanciato l’amo, nel vedere quali e quanti pesci stanno abboccando.
Di fronte a tutto ciò viene davvero voglia di tornare bambini. Di tornare ad essere quegli scolari monelli che, quando la maestra esigeva di sapere chi era il responsabile di una marachella, sapevano solo tacere per solidarietà di classe. A nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di strillare «Io no, signora maestra, io non sono stato». Davanti agli odiati insegnanti, tutti zitti! Che poi, i conti «tra di loro» si potevano regolare altrove e in un altro momento.
Ma oggi no, oggi non siamo più bambini. Siamo cresciuti. Siamo diventati adulti. Il gioco che cercava il piacere è stato sostituito dal lavoro che pretende risultati pratici. Abbiamo perduto quell’innocenza che non conosceva calcoli e strategie. In cambio abbiamo ottenuto una reputazione che — per puro calcolo e strategia — sa solo proclamarsi innocente.
[20/5/12]
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Ancora sul dibattito suscitato dall’attentato ad Adinolfi, pubblichiamo un articolo apparso su “Il fatto quotidiano” a firma di Luciano Lanza (redattore di A – rivista anarchica) e un contributo audio di rai radio3 con ospite in studio Paolo Finzi ( direttore della stessa rivista. A parte i toni tutti sulla difensiva, il fatto che un redattore di A dia in anteprima un pezzo ad un giornale di regime, è sintomatico di come alcuni di questi personaggi tendano, in occasioni particolari, ad assumere posizioni vicine alla destra più giustizialista. In questi ambiti si erigono a paladini difensori della “giusta via all’anarchismo”, al meglio, bollando certi episodi come frutto della strategia della tensione da parte dello stato, al peggio, denigrando, infamando ed espellendo da se il “problema”, quasi fosse un sasso nella scarpa da tirar via al più presto prima che possa scalzarli dai loro troni superbi e gravidi di false speranze (ricordiamo a tal proposito l’orrendo articolo di Andrea Papi sul 15 Ottobre). Al di là delle posizioni differenziate che gli anarchici hanno in merito alla gambizzazione di Adinolfi e la FAInformale (buoni anarchici e cattivi anarchici per lorsignori), certi soggetti, pur di fare i dovuti distinguo, preferiscono allearsi con i servi di regime più reazionari. Gli stessi che hanno fatto incarcerare innumerevoli compagni. Gli stessi che fanno le soffiate alla polizia. Gli stessi che disinformano continuamente sull’andamento delle lotte più radicali. Gli stessi che ci hanno ucciso Sole e Baleno. Ma questo ai vari Finzi, Lanza, Papi e altri non interessa.
Pennivendoli dell’Anarchia.
Un’individualità velenos(A)
–estratto da