In ogni caso nessun rimorso

In ogni caso nessun rimorso

Pino Cacucci

Tea due – Longanesi e C., Milano 1996

Feltrinelli, Milano 2003

È possibile che tra le idee, i fatti, le persone e il tempo, i rapporti si siano ingarbugliati fino a non riuscire più a riconoscerne i contorni. È altrettanto possibile che ciò che è vissuto sotto il segno della libertà, anche di quella più selvaggia, finisca col trasformarsi in strumento di addomesticamento.

Si ha un bel ripetersi che dopo tutto certi fatti e persone sono fuori moda e oramai superati, ma il rinnovato interesse manifestato da molti nell’affrontare argomenti del passato, tacendo però l’autentico significato di ciò che è stato, non può cambiarne a posteriori la realtà. Troppi percorsi pretesi nuovi sono la triste parodia di vie già battute, perché si possano sacrificare queste ultime, e chi le ha percorse, alla demagogia che presenta ogni cosa come soffocata dalle erbe cresciute col tempo.

Quindi, che non si conti su di noi per rispettare i diritti di successione in materia: ogni commemorazione nasconde un cadavere nella cui contemplazione si ritrovano, per girare in tondo, poveri diavoli e tristi sirene.

Certo è questo il momento adatto perché masse di curiosi arrivino sul luogo, oggi che il paesaggio è incontestabilmente cambiato e che perciò non si corre il rischio che qualcuno possa prendere sul serio ciò che gli passa sotto gli occhi. Ed è possibile riconoscere senza troppe difficoltà quelli che traggono apertamente profitto nell’asfaltare i vecchi sentieri della rivolta anarchica: i soliti servi in livrea. Meno facile è invece provare a capire come la linea dell’orizzonte sia a poco a poco diventata indistinta, e soprattutto come possano aver contribuito a questo annebbiamento anche persone che dicono di battersi per mettere in chiaro le cose.

Magari di fronte ai roditori d’ossa e ai confusionari opportunisti potremmo fare l’elenco di ciò che ci appartiene a tal punto da non poterlo mai rinnegare, di ciò che, nel momento in cui diventa oggetto di sfruttamento culturale, sbarra la prospettiva invece di lasciare libero il passaggio. Ma, servirebbe a qualcosa? Rimane il fatto che l’ipocrisia stende la sua viscida mano su coloro che amiamo per farli servire alla conservazione di ciò che essi hanno sempre combattuto.

E’ chiaro che non ci stupiamo troppo di certe operazioni, ad esempio che un “ex” pubblichi un romanzo sulla banda Bonnot, che un saltimbanco canti una canzone su Sante Pollastro, che un accademico organizzi un convegno su Stirner – che si tragga insomma un qualche profitto dai passati lampi della sovversione. Eppure, anche se la storia ci ha abituati all’invecchiamento e allo stravolgimento delle idee e delle forme in cui si concretizzano, non riusciamo ad acconsentire senza batter ciglio che questo accada a quanto ci fu di più vivo nella rivolta.

La diffusione inarrestabile del recupero, la sua onnipresenza, può essere un motivo significativo per giustificare la nostra acquiescenza, la nostra indifferenza nei suoi confronti? Siamo davvero sicuri che, vada come vada, il veleno dell’anarchia continuerà malgrado tutto a insinuarsi nell’animo delle persone per corromperle ed eccitarle? Ma, forse, questa certezza proviene dal fatto che accordiamo alla vita quella fiducia assoluta che non siamo capaci di trovare, prima di tutto, in noi stessi.

Che la vita sia altrove, lo si sa fin dai tempi di Rimbaud e ci verrà senz’altro ripetuto fino alla nausea, anche in questa occasione. Solo che la vita della banda Bonnot, riscritta da Pino Cacucci, ha riempito un libro di oltre 300 pagine – già edito nel 1994 ed ora uscito da poco in una nuova edizione tascabile – e purtroppo è proprio qui, e non altrove, che oggi tutto ritorna, in una prosa efficacemente derisoria, a ingrossare la marea di insignificanza che sommerge ogni tentativo di sfuggirvi.

Che esistenza movimentata quella degli illegalisti anarchici dei primi anni del secolo! Fatta di rapine, fughe, sparatorie. Agitata al punto d’essere perfetta per farci sopra un bel romanzo d’azione. Del resto, leggere un buon romanzo di avventure, magari “scritto bene” come questo di Cacucci, può essere effettivamente appassionante. Ma che dire di una vita in cui la passione non esiste più che sui libri?

Non occorre essere grandi filosofi per capire che il fascino di questo genere di letteratura si lega proprio alle sventure, alle minacce che pesano sull’eroe di cui si narrano le gesta. Senza pericoli, senza angosce, la sua vita non ci apparirebbe tanto affascinante e nulla ci costringerebbe a viverla con lui. Ma il carattere di finzione del romanzo aiuta a sostenere ciò che, se fosse reale, potrebbe superare di gran lunga le nostre forze, permettendoci così di vivere per procura ciò che non abbiamo l’ardire di vivere. Ed essendo, questo, un libro – come ci avverte l’autore – basato su avvenimenti e persone veramente esistiti, ma dove finzione e realtà si mescolano, alla fine sarà piuttosto arduo distinguere cosa è finzione e cosa è realtà, con evidente beneficio per la prima.

Ammettiamo che è la nostra malignità a bisbigliarci all’orecchio che tutto ciò mira essenzialmente a consolare la noia mortale che affligge la vita degli individui ormai mansuefatti. Per non parlare poi dell’impatto che possono avere queste opere all’interno del movimento, dove in un certo senso assolvono lo stesso compito svolto dalle vecchie canzoni anarchiche, quelle bellicose, piene di sangue e dinamite, che tutti conoscono a memoria e che è tanto bello cantare – possibilmente in coro – al fine di riscaldare i cuori intirizziti dalla glaciazione sociale del momento.

I più speranzosi accarezzano l’ipotesi che questi libri didascalici possano incitare all’azione, ma a noi sembra più verosimile pensare che servono soprattutto a sollevare il morale dei compagni, fornendo loro una rappresentazione facile da consumare.

Non possiamo esimerci dallo spendere alcune parole sul conto dello stesso Cacucci. Evidentemente la rivoluzione non paga, di certo non quanto avrà pagato la Longanesi per questo libro. Per chi un tempo è stato un “anarchico” – come Cacucci, per l’appunto – cosa c’è di meglio del capitalizzare quanto si è avuto modo di conoscere bene? Nulla di strano, dunque. Neanche ritrovarlo in mezzo ad altri prodotti in plastica sugli scaffali di un supermercato. Come tanti altri reduci, Cacucci ha compreso che in quest’epoca della depressione è molto più redditizio sbriciolare ogni idea e azione fino ad ottenerne un prodotto culturale, con una evidente predilezione per ciò che in partenza non lo era affatto, piuttosto che perdersi dietro alle utopie.

«I protagonisti delle pagine che seguono hanno invece perso tutto: battaglie, lavoro, amici, ideali, la loro stessa vita. L’unica cosa che sono riusciti a non perdere è la dignità», scrive solennemente l’autore in una nota introduttiva al libro, lui che ha trovato tutto – lavoro, amici e fama – rinunciando proprio alla dignità.

Ma, in fin dei conti, poco importa se l’attuale riscoperta di Bonnot e dei suoi compagni sia motivata da intenzioni buone oppure cattive. Per quel che ci riguarda, questa operazione non può che contribuire all’edificazione di quella formidabile contraffazione estetica che, al di là di ogni previsione, è sul punto di ricoprire la totalità dell’esistente. Chissà se Cacucci si è reso conto di quanta involontaria verità sia contenuta nell’ultima citazione che ha scelto, strano gioco del caso, per aprire il suo libro, quella di Paco Ignacio Taibo II: «Brindo ai compagni di un tempo, e alle loro ossa che biancheggiano al sole…».

[Da “Canenero”, n. 43, 20 dicembre 1996]

 

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